13 luglio 2021

Quando i compiti diventano una sofferenza: strategie di intervento


 

Sono moltissimi i genitori che vedono il momento dei compiti come una grande fonte di stress, un vero tormento e un’enorme scocciatura. I compiti a casa si trasformano spesso e volentieri in una lotta continua, che vede contrapposti da una parte i figli, che non li vogliono svolgere e dilungano i tempi all’infinito, mostrandosi svogliati e totalmente disinteressati, e dall’altra i genitori che si infastidiscono, si arrabbiano e cercano di farsi obbedire, arrivando presto all’uso di minacce, punizioni e ricatti.

 

D’altronde, avere un figlio che manifesta un brutto rapporto con i compiti scolastici è una situazione che può mettere a dura prova un genitore, anche perché è un impegno che si ripropone quasi quotidianamente durante l'anno scolastico, ma anche in estate, quando vengono a mancare la struttura e le scadenze date dalla scuola.

 

Questo articolo intende presentare una ricostruzione della dinamica, spesso rigida, che contraddistingue il momento dei compiti, per poi comprendere meglio i fattori che rendono spiacevole il doverli svolgere, e infine fornire delle strategie pratiche da applicare per rendere la situazione più serena ed efficiente per tutti.

 

Analisi della situazione

 

Quando un figlio si rifiuta ripetutamente di impegnarsi, temporeggia, si distrae continuamente, si lamenta, sbuffa, insomma fa tutto ciò che è in suo potere per scansare il lavoro scolastico, è comune che l’adulto reagisca con forte fastidio e irritazione, si senta preso in giro, oppure viva i comportamenti oppositivi del figlio come una provocazione o un affronto al proprio ruolo di genitore.

Ciò accade perché gli adulti hanno un certo tipo di aspettativa, ossia che i figli svolgano i compiti velocemente, autonomamente, senza intoppi e, possibilmente, anche tutti corretti. Tipicamente, di fronte alla mancata realizzazione di tale scenario ideale (e idealizzato), le reazioni più comuni consistono in due estremi: assumere un atteggiamento punitivo e autoritario, sgridando il figlio di fronte ad ogni errore, dimenticanza o brutto voto e accusandolo di scarso impegno o studio; oppure, a causa di un’eccessiva preoccupazione (ma soprattutto per porre fine alle continue liti), sostituirsi al ragazzo e fare i compiti al posto suo, non favorendo però la sua autonomia, educazione ed istruzione.

 

Se da una parte tali condotte possono essere comprensibili, soprattutto quando il tempo e l’energia a disposizione scarseggiano, è da notare come queste risultino del tutto controproducenti. Non tenendo conto delle ragioni alla base dei comportamenti del figlio, esiste il rischio concreto di alimentare o irrigidire le dinamiche disfunzionali già presenti, incancrenendo una situazione già per sua natura basata sulla ripetizione e la routine.

 

Vediamo invece quali potrebbero essere delle modalità di procedere più funzionali ed efficaci, per aiutare i ragazzi nello svolgimento dei compiti, senza litigare o sostituirsi a loro.

 

Quando i compiti sono piacevoli, e quando no

 

Per poter affrontare il problema, è innanzitutto importante comprendere quali siano le condizioni che rendano piacevoli o spiacevoli i momenti dei compiti.

Un bambino o un ragazzo svolge volentieri i compiti quando sente di essere in grado di svolgerli, ha chiare le modalità per riuscire bene ed è sicuro che con un po’ di sforzo ce la possa fare. Un grande fattore positivo per uno studente è riuscire a considerare gli argomenti come interessanti e divertenti, così come sentire che i genitori gli sono vicino, lo supportano e sono orgogliosi dei suoi risultati, il poter contare sul loro incoraggiamento o sostegno in caso di bisogno. Infine, i compiti sono svolti indubbiamente più volentieri quando un ragazzo è sereno e non ha particolari preoccupazioni, così da essere in grado di concentrarsi sulle attività senza angosce e distrazioni.

 

Al contrario, un bambino o un ragazzo non vuole fare i compiti quando questa esperienza è per lui fonte di dispiacere, di frustrazione o di umiliazione personale.

 

Può succedere, qualora il suo funzionamento cognitivo sia insufficiente rispetto alle richieste del compito, che ci si trovi a non sapere cosa dover fare per riuscire bene, oppure lo si sa, ma non si riesce comunque ad affrontarlo da solo, necessitando costantemente un aiuto esterno. È possibile che vi sia un disturbo specifico dell’apprendimento (DSA, da diagnosticare tipicamente verso i 7-8 anni) o altri disturbi di origine neurologica, come un disturbo alla vista, che rendono difficile lo svolgimento delle attività. È comune, poi, che i ragazzi che non vogliano fare i compiti non abbiano acquisito un buon metodo di studio, o che ne siano del tutto sprovvisti. Come risultato, faticano ad organizzarsi e a rendere il lavoro efficiente, impiegando una gran quantità di tempo a fronte di una resa del tutto insoddisfacente (“ho studiato per tutto il pomeriggio, ma non mi ricordo già più niente!”).

 

In termini di motivazione, uno studente che fatica nello svolgere i compiti in autonomia e in tempi ragionevoli, fatica a trovare piacere in quello che fa e non si sente stimolato, è spesso convinto che i buoni risultati dipendano da fattori esterni, come la fortuna, la clemenza degli insegnanti o la maggiore o minore facilità del compito, arrivando a credere di non poter fare nulla per migliorare la propria situazione, e quindi la prestazione.

Altro caso, qualora il problema sia dal punto di vista emotivo, avere una bassa autostima ha come conseguenza una scarsa fiducia nelle proprie capacità. Il ragazzo si sentirà insicuro e temerà di fare brutta figura, soprattutto se avverte che i genitori potrebbero arrabbiarsi o rimanere delusi per i suoi comportamenti, oppure se non dovesse riuscire a soddisfare le loro aspettative (o pretese). L’insicurezza è frequentemente data dalla sensazione di essere apprezzato solo in virtù del compito fatto bene, e aumenta quando si sente ricattato o vive la presenza del genitore come paragonabile a quella di un poliziotto. In questo caso, mancherà il supporto emotivo dato dal genitore, percepito, invece, come una figura giudicante e minacciosa.

 

Infine, in maniera non banale, un ragazzo fatica a studiare e fare i compiti nel momento in cui si trova in una situazione di disagio emotivo, ossia ha preoccupazioni forti e timori su qualcosa d’altro, che gli impediscono di concentrarsi. Per esempio, essere preoccupato per la separazione dei genitori, essere soggetto a pesanti episodi di bullismo o, più semplicemente, soffrire di pene d'amore, non permette di trovare le energie sufficienti per svolgere i compiti serenamente, pur avendone magari le capacità cognitive.

 

Comprendere per aiutare

 

Per rompere il circolo vizioso di negatività, è necessario andare incontro al ragazzo, aprendo un canale di comunicazione e cercando di capire quali sono i motivi della resistenza o del rifiuto.

In particolare, è importante distinguere innanzitutto se si tratta di una difficoltà di ordine prevalentemente cognitivo (“Non capisco”), emotivo (“Non sto bene”) o motivazionale (“Non ho voglia”), o di una combinazione di esse.

 

Comprendere le caratteristiche e le problematiche espresse dal proprio figlio con i suoi comportamenti è quindi il primo passo per potergli offrire l’aiuto di cui ha realmente bisogno. Prendendo consapevolezza delle sue esigenze, risulta più facile trovare la strategia giusta per ottenere la sua collaborazione anche quando fare i compiti non è considerato piacevole. Al contrario, non comprenderle o ignorarle, porterà quasi inevitabilmente a resistenza e ribellione, fino a giungere al cosiddetto “muro contro muro”.

Nel tentativo di comprendere le motivazioni dietro il rifiuto dei figli, è importante ricordare che i genitori possono ricorrere al confronto con gli insegnanti, così da capire meglio il contesto scolastico e della classe, come il rapporto con i professori e con i compagni, la condotta nelle ore scolastiche, o l’eventuale presenza di un problema di apprendimento.

Una volta che si ha uno sguardo più preciso circa la natura delle difficoltà manifestate, sarà possibile adottare una serie di strategie, da adattare in modo flessibile a seconda del caso specifico, che potranno facilitare l’avvio e lo svolgimento dei compiti.

 

Strategie pratiche

 

Innanzitutto, si deve prevedere uno spazio destinato ai compiti, sia dal punto di vista fisico, ossia una scrivania o un tavolo ordinati, sia temporale, stabilendo dei momenti della giornata o della settimana da dedicare al lavoro scolastico. 

In particolare, il luogo dove fare i compiti deve favorire la concentrazione dei ragazzi. Pertanto, se ad esempio i compiti sono svolti nella cameretta, la stanza deve essere in ordine e soprattutto lo deve essere la scrivania. Non ci devono essere in giro (o comunque non devono essere facilmente accessibili) giochi, videogiochi, televisione, o altre cose che possano essere motivo di distrazione.

Per i bambini, ma anche per i ragazzi, l’organizzazione è essenziale, per cui non va lasciata al caso o alla libera iniziativa dei figli, che di frequente faticano ad auto regolarsi. Piuttosto, si possono discutere e concordare insieme dei momenti e degli spazi riservati ai compiti, così che tutti sappiano quando e come dovranno essere svolti.

 

Inizialmente, soprattutto in caso si stabiliscano regole nuove dove prima non ce n'erano, è essenziale imporsi come decisori, rimanendo poi coerenti con quanto stabilito, anche se ciò può comportare dei sacrifici. Se si decide, per esempio, di dedicare ai compiti il sabato mattina, tale momento dovrà essere il più possibile tenuto libero da impegni e distrazioni, senza cedere alla tentazione di una gita o di una giornata in famiglia. Attraverso l’esempio si stabilirà così una routine, che possa aiutare il ragazzo a sviluppare un senso di responsabilità e a comprendere il valore dell’impegno.

 

Una volta definiti i momenti in cui ci si aspetta che i figli facciano i compiti, si può pensare di affrontare l'ostacolo successivo, ossia l’iniziare concretamente a svolgerli. Come molti genitori sanno bene, dovendosi trovare di fronte a continui rinvii e posticipazioni (“Tra cinque minuti li faccio”, “Finisco il cartone animato e li faccio”), per la maggior parte degli studenti non è mai il momento giusto per iniziare a fare i compiti. Tipicamente i genitori affrontano i rimandi perseverando a loro volta nella richiesta, adottando una certa insistenza verbale che, piuttosto rapidamente, si trasforma in frustrazione, fino a fargli perdere la pazienza. Davanti a questo tipo di resistenza, si può provare a passare all’azione, ossia coinvolgere direttamente il bambino o il ragazzo in un comportamento pratico (e immediato), ad esempio annunciando: “È ora di fare i compiti, prendi il diario e vediamo cos'hai da fare…

 

Se il primo momento richiede un vero e proprio affiancamento, ciò non significa che l’intero svolgimento dei compiti debba prevedere la presenza costante del genitore o di un adulto. Piuttosto, è consigliabile adottare un’oscillazione costante tra aiuto e autonomia, alternando momenti in cui si guida il lavoro, fornendo una direzione, ad altri in cui il bambino può sperimentare le proprie risorse senza l’osservazione diretta. Ad esempio, si può proporre: “Ora tu leggi, io ti ascolto, poi correggiamo insieme”, oppure “Arriva fino a qui, quando hai finito controllo

Affinché il bambino acquisti sicurezza, si può provare a delimitare l’aiuto solo all’inizio e alla fine di un compito, lasciando lo svolgimento concreto nelle sue mani.

Se all'inizio del percorso scolastico, nei primi anni di scuola elementare, è opportuno controllare che il bambino si ricordi di fare tutti i compiti o che porti il materiale scolastico necessario, negli anni seguenti, con lo sviluppo, il controllo deve diventare sempre meno stretto, lasciando i necessari spazi di autonomia (e quindi di crescita). La cosa che resta comunque più importante tra tutte, che qui vogliamo sostenere nella maniera più assoluta, è che l'adulto deve evitare di sostituirsi al figlio e fare le cose al posto suo.


Di fronte alle prevedibili e inevitabili difficoltà, per prevenire lo scoraggiamento e dunque l’abbandono, si possono proporre delle piccole sfide, calibrate sulle difficoltà del bambino o del ragazzo. Ad esempio, nel leggere la consegna di un esercizio, si può commentare: “È difficile, chissà se sei capace!”, oppure “Credo che ci metterai almeno 15 minuti a finire, è difficile farlo in meno tempo”). In questo modo, si promuove lo sviluppo delle capacità di risoluzione dei problemi e si rende più stimolante ed interessante l’apprendimento, un fattore che, come abbiamo visto, può cambiare radicalmente il modo di vedere i compiti.

 

Concedere una maggiore autonomia può essere difficile, in quanto implica la capacità di accettare e tollerare la possibilità di errore. Quando si nota uno sbaglio nello svolgimento dell’attività, è importante contenere la tentazione di intervenire direttamente e suggerire la correzione (sarebbe del tutto inutile mandare a scuola il bambino con i compiti perfetti, se poi non ha capito il concetto), bensì si dovrebbe invitare il ragazzo a rileggere e a capire che cosa ha sbagliato, lasciando che sia lui a trovare l’errore e correggerlo. Oltre a stimolare le capacità metacognitive e la consapevolezza di sé, questa strategia aiuta a sviluppare una sana autostima, basata sull’idea che l’errore sia parte della vita e che la cosa importante non sia non commetterlo, ma volerlo correggere.

Al contrario, la puntuale correzione del genitore, in particolare all’inizio del percorso scolastico, può essere causa di demotivazione e scarsa stima delle proprie capacità.

Per questo, è importante lasciare ai bambini lo spazio, il tempo e il diritto di sbagliare.

 

Quando le difficoltà scolastiche sono più strutturate

 

In questo articolo si è cercato di dare una panoramica generale di una delle situazioni più critiche del contesto familiare in rapporto con il mondo dell'istruzione, ossia il momento dei compiti. Dopo una prima analisi della dinamica, si è sottolineata l’importanza della comprensione dei fenomeni per poter avviare un percorso di aiuto, procedendo poi a fornire semplici strategie pratiche per affrontare i problemi più comuni.

Tuttavia, ci sono situazioni complesse, spesso con radici profonde, che delle semplici tecniche comportamentali possono non riuscire a scalfire. Di fronte a difficoltà scolastiche più strutturate, come lo scarso rendimento, l’opposizione a studiare alcune materie o addirittura il rifiuto scolastico, che possono portare i ragazzi a reazioni anche aggressive, con pianti o crisi isteriche incontrollabili, è necessario un intervento specialistico, diversificato a seconda delle caratteristiche specifiche del caso.

Lo psicologo può essere una valida risorsa (e spesso un mediatore) sia nel rapporto con la scuola, sia nell’aiutare i genitori a comprendere le caratteristiche del figlio, con le sue particolarità ed esigenze, per trovare il modo corretto per renderlo in grado di affrontare i compiti a casa con serenità.

 

 

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