11 maggio 2021

Relazioni problematiche: il bambino escluso


Può capitare che, in un gruppo di bambini, si stabiliscano delle simpatie e delle antipatie, ed è naturale che si cerchi di stare con i compagni con cui ci si trova meglio. Spesso, tuttavia, vengono a crearsi delle situazioni in cui alcuni bambini vengono tenuti in disparte, ignorati o addirittura rifiutati, venendo esclusi dai coetanei e quindi isolati dal gruppo.

Tale fenomeno, estremamente doloroso per chi lo subisce, può verificarsi già nella primissima infanzia e merita una particolare considerazione, avendo un impatto molto profondo che può durare potenzialmente per tutta la vita. Altro particolare, non meno rilevante, è che l’esclusione sociale, in infanzia e adolescenza, tende ad essere tristemente più frequente che in passato. Ciò potrebbe essere spiegato alla luce della maggiore competitività richiesta dal contesto sociale odierno, sia scolastico che familiare, in cui primeggiare sugli altri e ottenere prestazioni migliori assume la priorità su altri aspetti della vita, quali l’altruismo, la comprensione e l'empatia verso il prossimo.

Uno degli ingredienti fondamentali che bambini e adolescenti devono padroneggiare per stare nel gruppo o per stabilire delle amicizie è rappresentato dalla cosiddetta “grammatica dei rapporti sociali”, ovvero l’insieme di abilità e di conoscenze necessario per entrare in relazione in modo adeguato, definito tecnicamente “competenza sociale”.

Così, i bambini che sono benvoluti dai compagni e integrati nel gruppo riescono ad adattarsi meglio all’ambiente sociale e scolastico, in quanto dispongono di competenze sociali più evolute. I bambini o i ragazzi popolari sono spesso ammirati anche perché in grado, ad esempio, di prendere in considerazione i bisogni dell’altro, di offrire aiuto nel caso in cui un loro coetaneo sia in difficoltà e di condividere le proprie cose. Inoltre sono poco aggressivi, cercando al contrario di mettere in atto numerosi comportamenti prosociali, come l’altruismo, la solidarietà, l’empatia, la collaborazione e la cooperazione. Di frequente sono anche considerati dei buoni leader, soprattutto per la capacità di mantenere il proprio punto di vista in una discussione senza però imporsi con la forza.

Dall’altra parte, i bambini che più di frequente vengono esclusi o rifiutati dal gruppo risultano aggressivi e prepotenti o, al contrario, particolarmente remissivi, insicuri ed introversi. I bambini che presentano elevati livelli di aggressività, nello specifico, mettono in atto numerose condotte antisociali, sono poco rispettosi delle regole e non riescono a condividere le proprie cose con gli altri. Hanno difficoltà nel manifestare empatia per gli altri e si comportano in modo inadeguato nel corso delle interazioni sociali. Questi bambini hanno tipicamente un impatto elevato sul gruppo, tuttavia sono oggetto di una bassa preferenza da parte dei compagni.

Anche se apparentemente opposti, è possibile ricondurre sia l’aggressività che l’eccessiva timidezza e remissività ad una scarsa competenza sociale, ossia una carenza nelle abilità interpersonali e di socializzazione e nelle capacità empatiche.

La scarsa competenza sociale include non soltanto la mancanza di specifiche abilità sociali, ma implica anche la difficoltà a instaurare relazioni positive con i pari, l’incapacità di inibire le condotte aggressive e la messa in atto di azioni denigratorie.

Tali problematiche hanno numerose conseguenze a livello psicologico e sociale, andando a influenzare una molteplicità di aspetti che si possono riverberare anche per tutta la vita.



Le conseguenze del rifiuto

 

Nell’infanzia e nell’adolescenza, il rifiuto sociale si manifesta, a livello comportamentale, come un’esclusione attiva di alcuni bambini o ragazzi dalle attività che vengono condivise dal gruppo.

Di fronte all’esclusione, il bambino tende a costruirsi una sorta di maschera per proteggersi dal dolore del rifiuto, legato alla svalutazione di se stesso. Il risultato è una personalità di tipo evitante, che porta a fuggire dal confronto con gli altri, considerato troppo doloroso. Se in adolescenza l’isolamento tende a essere più concreto, con l’evitamento attivo delle relazioni sociali, in età infantile si assiste più spesso ad un ritiro dal reale in sé stessi, con la creazione di mondi immaginari in cui rifugiarsi. Soprattutto i bambini più introversi ricorrono alle proprie capacità creative e immaginative, spesso piuttosto evolute, per sottrarsi dall’esperienza negativa del quotidiano. Ciò li porta, tuttavia, a sembrare sempre più assenti ed eccentrici, il che è motivo di una sempre maggiore esclusione dal gruppo.

Soprattutto negli adolescenti è diffusa, invece, l’ansia sociale, ovvero il timore delle situazioni sociali come parlare in pubblico o esprimere la propria opinione a molte persone, tipicamente associata all’isolamento. Nei casi più gravi, ciò può portare a una condizione patologica di ritiro estremo, definita hikikomori (parola di origine giapponese, traducibile con “stare in disparte”), che porta il soggetto a segregarsi in casa o addirittura in una singola camera, tematica già approfondita qui.

Per il forte rischio di abbandono, coloro che sono rifiutati o ignorati vengono considerati a rischio non soltanto dal punto di vista dell’adattamento sociale, ma anche per quanto riguarda il successo scolastico.

A livello psicologico, il mancato inserimento nel funzionamento psichico del gruppo e la sensazione di esserne escluso, determinano una sofferenza e un’afflizione molto intense. Già in età prescolare, l’esclusione dal gruppo è correlata ad una percezione negativa di sé e delle proprie competenze.

Addirittura, secondo numerose ricerche nel campo delle neuroscienze, le aree del dolore fisico e del dolore dell’esclusione sociale hanno una rappresentazione comune all’interno dei sistemi cerebrali, per cui anche le sensazioni che ne derivano sono assimilabili. Sentirsi esclusi crea quindi un’emozione di forte dolore, proprio perché l'esclusione rompe i legami di appartenenza sociale, bisogno essenziale per l’essere umano.


Ripercussioni a lungo termine

 

Il rifiuto sociale può avere un impatto significativo a lungo termine, determinando una maggiore probabilità relativa all’insorgenza di disturbi d’ansia e depressivi, soprattutto nei bambini e ragazzi maggiormente introversi, e comportare un fattore di rischio per lo sviluppo di disturbi dell’alimentazione.

I bambini che subiscono il rifiuto a causa dei loro comportamenti aggressivi, inoltre, sono a rischio di incorrere in una serie di problematiche future, tra cui si possono evidenziare il basso rendimento scolastico o la discontinua frequentazione, l’abbandono precoce degli studi e il coinvolgimento in condotte illegali o azioni antisociali.

Queste problematiche derivano dal fatto che, nel bambino che viene escluso dai coetanei, il rifiuto diventa gradualmente parte dell’identità sociale, assumendo il proprio ruolo all’interno della società come un non-ruolo, cioè quello dell’escluso. Questo porta il ragazzo a comportarsi in maniera conforme all’etichetta che gli viene attribuita, una sorta di profezia che si autoavvera, che rinforza ulteriormente l’esclusione dal gruppo.

Il circolo vizioso che si viene a creare porta ad una stabilizzazione a lungo termine del disadattamento sociale, in cui i bambini prima, i ragazzi e gli adulti poi, si trovano coinvolti in costanti interazioni negative, che li escludono sistematicamente dall’opportunità di apprendimento di competenze sociali adeguate. Come se non bastasse, il ciclo di comportamenti inadeguati ed esclusione contribuisce a promuovere una percezione negativa di sé, dei coetanei e del mondo in generale, vissuto come crudele e spietato, oltre che un’ipersensibilità al rifiuto sociale.



Come intervenire

 

Come per molte altre situazioni, è difficile identificare una soluzione univoca ad un problema per sua natura articolato e dalle molte sfaccettature.

Dal momento che il rifiuto sociale, come si è visto, deriva da scarse competenze sociali, gli interventi finalizzati al superamento dei deficit di tali abilità sono generalmente efficaci, anche se di complessa attuazione. Tali interventi, in particolare, mirano ad insegnare sia come agire in modo più efficace sia come moderare gli eccessi comportamentali negativi.

Anche gli interventi di prevenzione, in età prescolare e scolare, possono essere particolarmente utili nel caso di relazioni disfunzionali tra pari, soprattutto laddove si identifichino situazioni a rischio. Mediante il potenziamento di empatia e prosocialità, si cercherà di prevenire o contenere l’insorgenza di comportamenti aggressivi e di spezzare il circolo vizioso esclusione/aggressività - maggiore esclusione/maggiore aggressività.

Un aiuto tempestivo a sostegno del bambino escluso, di concerto tra scuola e famiglia, può essere fondamentale per proteggerlo dalla percezione di essere inadeguato o insufficiente, e di non poter quindi vivere esperienze relazionali positive con i coetanei, insegnandogli al contempo a muoversi nel mondo sociale in modo più funzionale e sereno.

Premesso che ogni caso deve essere considerato e valutato a sé, date le numerose e diversificate componenti che possono entrare in gioco, i genitori, qualora dovessero notare delle dinamiche di esclusione che interessano i propri figli, possono mettere in atto una serie di strategie generali.

In primo luogo, è importante rispecchiarsi nelle emozioni del bambino, comunicandogli che si è compreso il suo stato d'animo e che ci si è accorti della rabbia e la delusione che sta provando, mantenendo comunque un atteggiamento calmo e rassicurante. Si possono raccontare degli episodi simili, anche personali e tratti dalla propria infanzia, piuttosto che fornire spiegazioni e chiarimenti sulle sensazioni provate, per aiutarlo a coglierle più profondamente. In questo modo, il bambino ha modo di comprendere che non è l’unico a provare certi sentimenti e, soprattutto, che non è solo, poiché i suoi genitori ne condividono le emozioni.

Allo stesso tempo, però, si deve resistere alla tentazione di sostituirsi al figlio nella gestione della situazione, ad esempio cercando di proteggerlo andando a parlare direttamente con i bambini che lo escludono. Anche se può sembrare una strategia efficace, il messaggio che si comunica al bambino è che non è in grado di risolvere la questione da solo, necessitando sempre di un aiuto esterno, il che contribuirebbe al suo senso di insicurezza e all’evitamento delle situazioni sociali.

Al contrario, si può provare a stimolare il bambino a trovare delle soluzioni al proprio problema, aiutandolo a riflettere e a ipotizzare eventuali scenari risolutivi, impostando la discussione come una ricerca condivisa, piuttosto che una spiegazione asimmetrica e unilaterale.

Qualora la situazione di esclusione si verifichi in un solo contesto, ad esempio a scuola, si può chiedere un momento di confronto alle insegnanti, per comprendere meglio le dinamiche interne alla classe e concordare le strategie migliori per promuovere l’integrazione.

Nel caso in cui, però, si noti che il proprio figlio sia sistematicamente escluso dai coetanei in una pluralità di situazioni, come a scuola, nello sport o nel tempo libero, può rendersi necessario un intervento più specifico da parte di un professionista, come uno psicologo, che possa aiutare il bambino o il ragazzo a superare le proprie difficoltà e a sviluppare quelle competenze sociali che gli consentano di vivere in armonia con i propri pari e, in ultima analisi, con se stesso.






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