17 marzo 2022
La definizione di “diverso” è sicuramente molto ampia. Diverso significa altro da sé, esterno, spesso estraneo. Diverso è colui che ha altre idee, culture, tradizioni, religioni rispetto alle proprie. Diverso è chi appare differente, o presenta qualche caratteristica particolare che si discosta dalla propria realtà di riferimento.
Davanti al diverso, le persone sono portate a manifestare una certa inquietudine, una sensazione di disagio ma anche di paura, insieme ad altre emozioni negative che possono generare reazioni di disprezzo e allontanamento.
È molto diffusa l’idea secondo cui la paura per il diverso emerga interamente dalla cattiveria, dalla meschinità e dalla scarsa umanità, e quindi rappresenti un atteggiamento facilmente contrastabile con uno sforzo di volontà. Tale interpretazione risulta eccessivamente semplicistica, e non tiene in considerazione numerosi altri fattori di natura psicologica e antropologica. In questo articolo si vogliono prima di tutto illustrare alcuni meccanismi psicologici dietro alla paura per il diverso, riletti come modi in cui la mente cerca di difendersi dal mondo esterno e di definirsi nella propria identità. In seguito, si vuole offrire una prospettiva antropologica alla questione, chiarendo – senza volerla per questo giustificare – che la paura per il diverso caratterizza l’essere umano da sempre, lungo tutto il corso della sua vita.
Stereotipi: le credenze generali
Uno dei modi principali con cui la mente elabora le informazioni provenienti dall’ambiente e dà un senso alla realtà, è rappresentato dalla categorizzazione, ossia quel processo che permette di suddividere oggetti, eventi e persone in categorie mentali. Si tratta di una capacità mentale alla base del nostro funzionamento cognitivo, senza la quale non potremmo compiere inferenze o formulare aspettative rispetto all’ambiente circostante. Il processo di categorizzazione è reso possibile dall’elaborazione delle esperienze concretamente vissute, che consentono di affinare e meglio definire le categorie (ad esempio: imparare che esistono molti tipi di insetti diversi, alcuni pericolosi, altri innocui), ma anche su idee derivanti da pregiudizi e stereotipi.
Gli stereotipi consistono in un insieme di credenze e idee su una certa classe di oggetti o individui, a cui vengono attribuite determinate caratteristiche.
Sono acquisiti dai singoli individui come parte della cultura del gruppo di appartenenza, che si fa portatore di determinate credenze verso se stesso (definito in psicologia ingroup) e gli altri (outgroup). Gli stereotipi, dunque, sono rappresentazioni largamente condivise e facilmente evocabili. Ad esempio, nella cultura occidentale, un medico è considerato intelligente, affidabile, portatore di autorevolezza e degno di rispetto, mentre l’immagine di un insegnante corrisponde ad una donna, gentile, colta e tendenzialmente riservata.
La diffusione e l’uniformità di tali credenze spinge a chiedersi cosa porti la mente a ricorrere agli stereotipi. Ebbene, questi rappresentano un modo per comprendere la realtà e semplificare il mondo, dando un senso alla complessità di ciò che ci circonda.
In questo senso, gli stereotipi sono una scorciatoia mentale, funzionale alla propria capacità di pensiero nel momento in cui si incorre in un nuovo elemento della realtà, di cui si necessitano informazioni. La realtà viene categorizzata per renderla meno ignota, meno pericolosa, e più comprensibile. In altre parole, gli stereotipi consentono di crearsi delle rapide aspettative sul comportamento altrui, il che assicura un senso di padronanza e controllo, fondamentale per la salute mentale. Così, se incontriamo una persona e questa ci rivela di essere un medico, si assoceranno automaticamente a questo titolo tutta una serie di caratteristiche derivanti dallo stereotipo, come l’intelligenza, l’affidabilità e l’autorevolezza, anche se queste non necessariamente corrispondono alla persona che si ha davanti. Questo esempio ci porta ad un’ulteriore caratteristica degli stereotipi, vale a dire la loro rigidità e resistenza al cambiamento, per cui, una volta formati, risultano difficilmente modificabili, restando ancorati alla cultura e all’identità della persona.
Oltre alla difficile modificabilità, gli stereotipi hanno altri risvolti negativi, primi fra tutti gli errori di categorizzazione. Tra questi, i più importanti sono la sottovalutazione delle differenze all’interno del gruppo di appartenenza (ingroup) e la sopravvalutazione delle differenze tra gruppi (outgroup). Nel primo caso, il gruppo sociale a cui si appartiene viene percepito come complesso e multisfaccettato, composto da individui distinti tra loro e portatori di una propria identità. Per quanto riguarda i gruppi sociali esterni, invece, si tende a visualizzarli in maniera compatta e omogenea, fino a non riuscire a cogliere le differenze al suo interno. Gli altri diventano, così, tutti uguali, nel loro essere diversi da sè. Ciò avviene perché si attribuiscono indistintamente delle caratteristiche precise ad un’intera categoria di persone, senza prendere in considerazione l’inevitabile variabilità tra i componenti di quel gruppo.
Pertanto, gli stereotipi sono una strategia funzionale adottata dalla mente per comprendere il mondo e dare un senso alla realtà, e raggiungono il loro scopo a patto che non risultino eccessivamente rigidi e generalizzati.
Pregiudizi: le opinioni precostituite
Al concetto di stereotipo si lega indissolubilmente quello di pregiudizio, il primo come base del secondo.
Con pregiudizio si intende, letteralmente, un giudizio che viene formulato prima dell’esperienza o comunque in assenza di informazioni concrete. Si tratta di un’opinione che deriva non dalla conoscenza precisa e diretta di eventi, individui o gruppi, bensì sulla base di voci e opinioni comuni. Come gli stereotipi, anche i pregiudizi tendono a rimanere immutati, anche alla luce di nuove conoscenze, e sono diffusi all’interno del gruppo di appartenenza.
Tuttavia, anche se spesso confusi o assimilati allo stesso significato, in realtà stereotipi e pregiudizi presentano importanti differenze. Mentre per gli stereotipi prevale una componente cognitiva o informativa, maggiormente legata all’ottenimento di informazioni in base alle quali creare un giudizio, i pregiudizi sono più legati ad una componente valutativa, come stabilire se qualcosa o qualcuno è apprezzato o meno. Ad esempio, in base ad un pregiudizio, si possono considerare gli avvocati come persone oneste, mentre ritenere i politici incapaci o corrotti. In questo senso, il pregiudizio si lega in modo più stretto alle emozioni della persona, e pertanto risulta facilmente manipolabile dall’esterno. Come gli stereotipi, anche i pregiudizi non si formano in modo casuale o secondo una momentanea scelta arbitraria, bensì costituiscono una parte integrante della cultura di un certo gruppo e derivano dai processi di socializzazione, ossia dall’influenza della società.
Il pregiudizio è dunque trasmesso socialmente, e come tale può essere creato: nella storia sono innumerevoli gli esempi di gruppi o popolazioni che, prima considerati in maniera positiva o neutra, sono portati al rango di “nemico” o comunque giudicati in modo negativo. Negli ultimi decenni, questo ruolo di influenzamento e creazione di pregiudizi è stato primariamente svolto dai mass media, sempre più abituati a scindere gli eventi in maniera binaria, differenziando in maniera netta tra “buoni” e “cattivi”, confezionando ad arte idee preconcette che nulla hanno a che fare con la realtà. Pregiudizi, appunto.
Oltre a semplificare eccessivamente la realtà, fino a stravolgerla, questa tendenza risulta particolarmente pericolosa per via della stretta connessione tra pregiudizi e comportamento. Dal momento che i pregiudizi portano ad attribuire ad una persona sconosciuta dei tratti e delle caratteristiche ritenute proprie del suo gruppo di appartenenza, ne risultano influenzate anche le interazioni sociali e il modo di porsi e comportarsi con tale individuo.
Il comportamento viene quindi modellato sulla base delle credenze possedute, così che si crea una condizione in cui le ipotesi formulate sulla base dei pregiudizi tendono a verificarsi. Questa dinamica, definita della “profezia che si auto-avvera”, influenza l’interazione con le persone sulle quali si hanno pregiudizi, modificandone di conseguenza il comportamento in modo che si conformi al proprio modello. Ad esempio, considerare delle persone come aggressive e violente (senza avere prove o esperienza diretta per poterlo affermare) porta ad assumere atteggiamenti poco gentili e orientati alla punizione nei loro confronti, i quali a loro volta reagiranno in maniera più aggressiva nei confronti di questa ostilità, finendo col confermare le aspettative e il pregiudizio.
Pertanto, rispetto agli stereotipi, maggiormente afferenti alla sfera cognitiva, i pregiudizi trovano le proprie basi nelle emozioni, che a loro volta portano a determinati comportamenti. Una delle emozioni cardine del pregiudizio è rappresentata dalla paura del diverso, dell’ignoto, dell’altro da sé. Una paura ancestrale, che caratterizza l’essere umano universalmente e in tutta la sua storia, sia evolutiva, sia di vita. Comprendere questo aspetto può aiutare non solo a rileggere gli stereotipi, i pregiudizi e la paura del diverso sotto una nuova luce, ma può anche servire a non farsi manipolare e a ragionare senza ricorrere troppo al pilota automatico.
Paura del diverso: una visione psico-antropologica
Se alla base del pregiudizio troviamo la paura, resta da chiedersi da cosa derivi questa reazione, soprattutto in quanto inconsapevole e automatica. La paura verso ciò che non si conosce ha radici molto profonde, risalenti all’evoluzione animale, e quindi anche della specie umana. Si teme lo sconosciuto per sopperire alla necessità di proteggere se stessi e il proprio gruppo sociale da potenziali minacce, per garantirne la sopravvivenza. Anche lo stereotipo, in quest’ottica, assume una funzione difensiva, consentendo il mantenimento della propria cultura e la protezione delle posizioni acquisite.
In effetti, dal punto di vista evolutivo, la paura per tutto ciò che è diverso ed insolito caratterizza l’essere umano fin dalla prima infanzia, tanto da essere sperimentata dagli 8 mesi di vita. Orientativamente in questo periodo, i bambini iniziano a manifestare una reazione di paura nei confronti delle persone estranee, piangendo in assenza della madre o della figura di riferimento. Si tratta di una reazione innata con un preciso significato evolutivo. L’estraneità viene considerata un segnale di potenziale pericolo, rinforzando contemporaneamente l’attaccamento nei confronti della madre, le cui cure sono essenziali per la sopravvivenza dell’individuo e della specie.
In seguito, la paura (o la fascinazione) per il diverso risulta particolarmente evidente nei bambini che, privi delle inibizioni date dalle norme sociali (pregiudizi), si stupiscono, si impauriscono e fanno domande, spesso in modo ritenuto inappropriato o sconveniente, quando si trovano davanti a persone vestite in maniera particolare, con aspetto diverso dal proprio o con disabilità di varia natura.
Crescendo, anche in
seguito alle reazioni di disapprovazione e rimprovero da parte degli
adulti, i bambini imparano che certe questioni sono da trattare in
maniera più delicata e privata. Questo, tuttavia, ha a che fare con
le modalità di manifestazione di una certa reazione, in questo caso
il timore per il diverso, la quale resta comunque presente anche in
età adulta. Rimaniamo incuriositi (positivamente o negativamente) da
chi non è come noi, apprendiamo solo che ci sono modi socialmente
accettati e altri disapprovati per esprimerlo.
La paura per il diverso è dunque propria dell’uomo, e si è evoluta insieme al suo modo di concepire e rappresentare la realtà.
A riprova di ciò si può considerare come, nella lingua inglese, i termini “stranger” (straniero, sconosciuto) e “strange” (strano, bizzarro, insolito) siano praticamente sovrapponibili; o ancora, pensare al termine latino “extraneus” (estraneo, sconosciuto), la cui radice “extra” significa fuori, da fuori, cioè colui che è di un altro paese, in altre parole straniero.
Gli esempi tratti dalle lingue possono continuare prendendo in esame l’ideogramma cinese yì, ossia differente, strano, altro, il cui carattere arcaico raffigura una persona che muove le mani in aria in modo minaccioso e che indossa una sorta di maschera (in maniera significativa, la testa è a sua volta costituita da un altro ideogramma, con significato “occidente”). Anche in questo caso, dunque, differente rimanda a ciò che è negativo, ignoto e lontano.
Pertanto, i nostri meccanismi mentali ci portano ad avere timore della diversità e ad essere sospettosi nei suoi confronti, per ragioni evolutive e di conservazione della propria identità. Così è la natura degli esseri umani, e negarla o pretendere di cambiarla per capriccio, volontà o imposizione (cioè, in poche parole, pretendendo di estendere i propri stereotipi e pregiugizi a tutti gli altri) è non solo inutile, ma anche una vera e propria violenza sugli altri. Tuttavia, questo aspetto naturale e imprescindibile (come altri) non deve essere una giustificazione alla discriminazione e al disprezzo nei confronti di ciò che non conosciamo (una maniera, di nuovo, per estendere i propri stereotipi e pregiudizi a tutti gli altri, uguale e contraria alla precedente).
Conclusioni: da “hostis” a “hospes”
Nelle lingue di origine latina, il significato originario del termine “straniero” rimanda alla stessa radice da cui provengono i termini, apparentemente antitetici, di “nemico” (“hostis”, ostile) e “ospite” (“hostes”). La nozione di ostilità e quella di ospitalità sono dunque strettamente collegate, e lo straniero ha una duplice accezione: in un caso ospite da rispettare (hospes), nell'altro nemico da combattere (hostis).
In effetti, l’altro è al tempo stesso diverso e simile a sé, nel suo essere umano e in grado di provare sensazioni ed emozioni umane, seppur di natura o qualità differenti. Se nell’altro si riconoscono solo differenze, si perde la dimensione comune; se ci si sforza per azzerare la diversità, affannandosi a cercare un’uguaglianza categorica e a priori, si scredita tutta l’originalità dell’altro, sacrificandola in nome di un’integrazione forzata che non ha nulla di autentico e, inevitabilmente, la diversità (altrui o propria) verrà annullata e assimilata da un'altra.
Considerando entrambi gli aspetti, è
possibile riconoscere la diversità non più come qualcosa di
minaccioso o dannoso di cui avere paura, bensì come un “mondo
nuovo” da esplorare e scoprire, a cui ci si può approcciare con
curiosità e interesse, anche per conoscere più e meglio se stessi,
avendo un confronto con qualcosa di differente.
Trasformare il potenziale hostis in hospes rappresenta una scelta complessa, faticosa, che necessita di essere calibrata e che è frutto dell’impegno reciproco di entrambi gli interlocutori. A questo proposito, non bisogna dimenticare che, se da una parte l’ospite va accolto, questi si deve anche lasciare ospitare e accettare le regole della casa.
In conclusione, sviluppare una consapevolezza dell’esistenza e dell’inevitabilità di quei meccanismi che portano a stereotipi, pregiudizi e timore verso il diverso, permette in parte di controllarli e di esercitare una certa flessibilità in un sistema altrimenti rigido. Si tratta, in ultima analisi, di partire proprio dagli inevitabili stereotipi e pregiudizi, senza negarli o stigmatizzarli attraverso facili e falsi moralismi, per scegliere consapevolmente di andare oltre e cercare di dare una forma più realistica a ciò che è ritenuto diverso, conoscendolo per come è davvero. Una volta tracciati dei contorni più definiti e consapevoli di ciò che si presenta differente, sarà possibile un approccio più adeguato.
Se invece la paura dovesse permanere, anche per convenienza del sistema, il rischio è che si cristallizzi, fino a incancrenirsi, un sistema interno scisso, con da una parte la fazione dei “buoni” contrapposto alla schiera dei “cattivi”, quest’ultima considerata in maniera totalmente e universalmente negativa. Si badi che entrambe le fazioni si considererebbero i “buoni”, innescando un'ulteriore generazione di stereotipi e pregiudizi nei confronti dei “cattivi”. Ciò che intendeva annullare le differenze, ne genera di fatto di nuove.
Tale visione binaria del mondo porta alla formazione di pregiudizi sempre più rigidi, e corrisponde inevitabilmente ad un aumento nell’aggressività e nella violenza, vista come difesa necessaria agli attacchi esterni.
Attraverso la consapevolezza dei meccanismi di categorizzazione e di protezione nei confronti di ciò che è altro da sé, è possibile invece sviluppare una visione più accurata e tridimensionale del mondo che ci circonda, accogliendolo nella sua diversità, particolarità e complessità, dunque nella sua ricchezza.
Informazioni personali

- Emma Messina
- Sono una psicologa abilitata e un’insegnante, con esperienza più che quinquennale nel settore.
Nel mondo scolastico, ho maturato un'esperienza particolare nei confronti di ragazzi con disturbi dell’apprendimento, problemi di motivazione e di ansia da prestazione. Da anni tengo lezioni sul metodo di studio a studenti di ogni età, per promuovere l’autonomia, rinforzare l’autostima e recuperare le abilità scolastiche.
Parallelamente, offro un servizio di sostegno ai genitori, affinché possano mantenere e consolidare i risultati ottenuti dai figli in un clima di serenità e reciproca comprensione.
Servizi offerti:
- Processo di diagnosi e Valutazione Psicologica;
- Tutoring elementari/medie/superiori/università;
- Orientamento;
- Crescita personale;
- Sostegno genitoriale;
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