12 gennaio 2022

“Mio figlio non vuole fare i compiti!”, cosa fare?


I compiti a casa sono una costante per ogni studente, a partire dalle scuole elementari fino alle superiori. Quando un figlio ha un brutto rapporto con i compiti, questi possono trasformarsi in una costante agonia, fatta di continui litigi, ribellioni e scenate. La frustrazione cresce da entrambe le parti, i compiti non vengono svolti, e si spreca tutto il tempo libero in un continuo tira e molla che non porta a nulla. Questa dinamica si ripete costantemente ogni giorno, tutte le volte che compaiono nuovi compiti, diventando spesso insopportabile, soprattutto nei periodi di vacanza prolungata.

 

 

In questa situazione i genitori si trovano senza strumenti, confusi, con molte domande e nessuna risposta. Vorrebbero aiutare il proprio figlio, stargli vicino, facilitarlo nei compiti, ma sembra che ogni tentativo si riveli inutile, se non controproducente. A questo proposito, per capire come intervenire, bisogna innanzitutto porsi una domanda fondamentale: cosa significa aiutare il proprio figlio a fare i compiti?

 

Aiuto o non aiuto?

 

Non è questa una domanda banale, se si considerano tutte le implicazioni e i significati di “aiutare”.

Ci sono genitori che non resistono alla tentazione e, per mantenere il quieto vivere o per potersi dedicare il prima possibile ad attività più piacevoli, si sostituiscono direttamente ai figli, facendo i compiti al posto loro. Questa pratica, oltre a sottrarre allo studente le possibilità di apprendimento e consolidamento delle informazioni garantite dai compiti, trasmette al figlio il messaggio di non essere abbastanza capace per svolgerli da solo. Ciò intacca notevolmente l’autostima e il senso di sicurezza di sé, portando lo studente a pensare di avere sempre bisogno di un aiuto, rinforzando così la necessità che sia il genitore a svolgere i compiti.

Altre volte ci si sostituisce ai figli nel tentativo di semplificare il lavoro e renderlo meno spiacevole: un compito particolarmente lungo o complesso, come una ricerca, viene portato avanti dal genitore, il capitolo da studiare, con molte pagine, viene puntualmente riassunto in un formato più facilmente affrontabile, mentre se i figli si lamentano per i troppi compiti, ci si rivolge immediatamente agli insegnanti, pretendendo spiegazioni. I cosiddetti “genitori spazzaneve” rimuovono ogni ostacolo e ogni difficoltà dal percorso dei figli, nel tentativo di proteggerli. Così facendo, tuttavia, si priva i ragazzi della possibilità di apprendere ad affrontare i problemi e cavarsela da soli, nei compiti, ma anche nella vita in generale.

In modo simile, non è altrettanto desiderabile mettersi a correggere i compiti dei figli, o farli ricopiare in bella copia. Questa pratica, diffusa soprattutto fra i genitori di bambini frequentanti la scuola elementare, trasmette il messaggio che non si possa sbagliare, con tutta l’ansia che ne deriva, oltre a intromettersi nella relazione di apprendimento tra studente e insegnante. È importante, invece, che il bambino parli dei propri errori con l’insegnante, così che possa comprenderli e non ripeterli.

Spesso i genitori nutrono grandi aspettative verso i figli (che possono anche diventare eccessive, con numerose conseguenze negative), e ci tengono che presentino dei compiti ben fatti e in ordine. In realtà, ciò può nascondere una paura particolare, ossia quella di essere giudicati come genitori inadeguati o poco attenti. Insomma, sono gli adulti a sentirsi valutati, per cui sono portati a intromettersi nello svolgimento dei compiti per poter alleviare tale insicurezza. Tuttavia, correggere i compiti prima di consegnarli, aiutare i figli, o addirittura sostituirsi a loro, non permette al bambino di apprendere, di misurarsi con le sfide e le difficoltà e, soprattutto, a diventare sempre più autonomo.

 

Se un aiuto eccessivo, fino ad arrivare alla totale sostituzione, non è desiderabile, non può esserlo nemmeno l’indifferenza. La scuola, le lezioni, i compiti, sono parti essenziali delle giornate e delle vite dei figli, per i quali non si può mostrare un totale disinteresse. In poche parole, anche lasciarli in totale autonomia non è un’opzione valida. Da un lato, alla funzione educativa della scuola intesa come la costruzione del senso di responsabilità e autonomia, deve partecipare per forza di cose anche la famiglia (se così non fosse, non esisterebbero i compiti a casa, ma solo attività da svolgere in classe). Dall’altro, perché i genitori, prima di tutti gli altri, devono trasmettere ai figli l’importanza della scuola e dell’apprendere, un messaggio completamente ribaltato nel caso in cui siano i genitori in primis a mostrare disinteresse o, addirittura, a svalutare il sistema scolastico o l’utilità dei compiti a casa.

 

Cosa fare dunque? Come approcciarsi ai compiti in modo funzionale, ma allo stesso tempo facendo sì che vengano effettivamente svolti?

 

Aiutami a fare da solo

 

Siamo abituati a pensare all’aiuto come un segnale di debolezza, di incapacità, di fragilità. Avere bisogno di aiuto implica una sconfitta, una propria mancanza o imperfezione. Basti pensare a come vengono considerate, ancora oggi, le persone che ricorrono ad un aiuto psicologico, o a quanti sono timorosi di cercare assistenza per la paura di essere giudicati dagli altri. Proprio questa visione impedisce di considerare la vera natura dell’aiuto, il suo significato e, di conseguenza, il suo obiettivo. 

L’aiuto, per essere tale, deve mettere in condizione la persona di diventare autonoma, di riuscire ad affrontare le difficoltà contando solo sulle proprie capacità. In altre parole, l’aiuto serve ad averne sempre meno bisogno. Questo semplice cambio di prospettiva chiarisce in un attimo cosa s’intende quando si afferma che bisogna aiutare i figli a fare da soli: l’aiuto deve essere diretto a sviluppare questi strumenti e quelle capacità che permettano i bambini e i ragazzi di diventare sempre più indipendenti, fino ad essere in grado di svolgere determinate attività in autonomia.

Non si tratta, pertanto, di giocare la partita al posto loro, bensì diventare “allenatori” dei propri figli, tenendosi esterni allo svolgimento dei compiti, ma mantenendo comunque una posizione di monitoraggio, osservazione e, quando necessario, di assistenza.

 

I compiti sono dei figli, li devono fare loro. Sono loro i protagonisti dell’esperienza scolastica, e come tali devono sentirsi. Solo quando viene richiesto, è possibile aiutarli, senza però sostituirsi a loro. Si può, invece, guidarli per arrivare da soli alle risposte che stanno cercando (“Hai provato a rileggere la consegna?”, “Sei sicuro che questo calcolo sia corretto?”), in modo da stimolarli a trovare una propria modalità per approcciarsi allo studio.

Il concetto chiave è “esserci”, ossia essere disponibili per aiutare i figli a trovare un proprio metodo, una propria autonomia e un proprio senso di autostima, che sia prima di tutto personale, e non mediato dai genitori.

Inoltre, il ruolo della famiglia, nei compiti ma anche in generale, è quello di offrire sostegno emotivo alla fatica e all’impegno dei figli, mostrando comprensione ed empatia davanti ai capricci e alle lamentele, ma continuando a porre enfasi sull’importanza della scuola e dei compiti, restando fermi e coerenti. In questo senso, il genitore deve anche trasmettere fiducia, incoraggiando i ragazzi nei compiti e rassicurandoli con un atteggiamento positivo (ad esempio, davanti ad un esercizio particolarmente difficile, si può affermare: “Sono sicuro che se ti impegni puoi farcela”, piuttosto che “Se è troppo difficile, non farlo”).

La presenza del genitore ha anche la funzione di sostenere l’autodisciplina, in modo che, con il tempo, il bambino possa sviluppare un senso di responsabilità interno che lo porti a svolgere i compiti anche senza sollecitazioni esterne.

 

Riassumendo, per aiutare i figli nello svolgimento dei compiti, i genitori sono chiamati a sostenerli in un percorso verso l’autonomia, attraverso il rispetto dei confini, la stimolazione al problem solving e la partecipazione emotiva.

In maniera pratica, però, lo sviluppo di un senso di autonomia passa prima di tutto dalla creazione di una cornice organizzativa adeguata, che possa fare da “contenitore”, chiaro e prestabilito, all’interno del quale il bambino o il ragazzo può muoversi liberamente e operare le proprie scelte in merito a come svolgere il lavoro. In altre parole, aiutare i figli a fare i compiti consiste soprattutto nell’aiutarli ad organizzarsi, a trovare un loro metodo di studio, anche predisponendo ambienti e momenti idonei allo svolgimento dei compiti.


Consigli pratici

 

Aiutare i figli a fare da soli, come si è visto, significa creare un contesto in cui possano apprendere e sviluppare un senso di responsabilità e autonomia. La chiave sta quindi, prima di tutto, nel creare questo contesto.

Innanzitutto è fondamentale stabilire in modo chiaro, e rispettare con coerenza, delle regole precise per organizzare lo studio. Si stabilisce un orario definito da dedicare ai compiti, che tutti (genitori compresi) si impegnano a rispettare. 

L’orario dei compiti è fisso, e non può essere modificato (ovviamente sono possibili eccezioni, ma che devono rimanere rare, motivate e, appunto, eccezioni). Ad esempio, se si decide che i compiti vanno eseguiti dalle 4 del pomeriggio fino all’ora di cena, non è possibile chiedere ai ragazzi, in quel periodo di tempo, di aiutare con le faccende domestiche, di uscire di casa per fare acquisti o di intrattenersi con degli ospiti. In questo modo si andrebbe contro quanto precedentemente stabilito, autorizzando implicitamente anche i figli a non rispettare gli orari. 

Allo stesso modo si stabilisce un momento per il relax e lo svago, preferibilmente dopo lo svolgimento dei compiti, in modo che serva da rinforzo positivo per il lavoro. Ciò crea una struttura definita nella mente dei bambini e dei ragazzi, un contenitore che è prima di tutto rassicurante, perché chiaro, preciso e definito, ma anche un modo per rinforzare la disciplina, in quanto trasmette il messaggio che c’è un tempo per tutto, che sia il “dovere” o il “piacere”. Se l’orario dei compiti è fisso, è in ogni caso importante prevedere e concedere delle pause, a patto che rappresentino dei brevi momenti di relax, che non ostacolino, bensì facilitino il lavoro. La durata delle pause è stabilita in anticipo e va fatta rispettare con fermezza, senza concessioni immotivate (“Ancora 5 minuti!”).

Oltre alla tempistica, è fondamentale curare anche l’ambiente in cui si svolgono i compiti, che deve essere tranquillo, ordinato e, se possibile, dedicato al solo lavoro scolastico (ad esempio una scrivania personale), per creare un contesto che faciliti la concentrazione. 

Per lo stesso motivo, vanno assolutamente evitate le distrazioni. Tra queste, oltre a quelle fornite da cellulare e televisione, rientrano anche la mancanza di privacy, le continue interruzioni per rispondere alle richieste dei genitori (oppure di fratelli o sorelle), lo sporco e il disordine.

Durante lo svolgimento dei compiti, è importante essere disponibili e pronti ad aiutare nel caso il bambino si trovi in difficoltà, ma anche per richiamarlo all’attenzione nel caso divaghi troppo. Bisogna però trovare un giusto equilibrio tra presenza e spinta al lavoro autonomo, facendo in modo di non essere invasivi.

Alla fine del lavoro, al posto di cedere alla tentazione di controllare i compiti per correggerli, è fondamentale invece assicurarsi che tutte le consegne siano state portate a termine. Ciò è particolarmente importante per i bambini più piccoli, ma spesso anche i ragazzi delle scuole medie necessitano di assistenza in questo senso. 

Gradualmente, il controllo dovrà diventare meno stringente, lasciando dei margini di fiducia, che vanno determinati a seconda dei casi. Non bisogna assolutamente dimenticare che nel processo di acquisizione dell’autonomia ogni bambino ha i suoi tempi, ed è giusto rispettarli. I genitori sono dunque chiamati a monitorare i progressi dei figli e a comprendere quando sia necessaria una supervisione e quando invece si possa concedere un margine di autonomia.

 

Quando i figli continuano a rifiutarsi

 

Nonostante le strategie e i suggerimenti sopracitati possano essere di beneficio in molte situazioni, ci possono essere comunque dei casi in cui si rivelino insufficienti. Se, malgrado i tentativi, i figli continuassero a rifiutarsi di fare i compiti, è essenziale soffermarsi sulle motivazioni di tale resistenza, che probabilmente esulano dal solo ambito scolastico. Spesso, infatti, questi comportamenti sono interpretati come semplici capricci, ma possono anche rappresentare un segnale di disagio.

Ad esempio, è possibile che uno scarso rendimento, con continui insuccessi e insufficienze, abbia messo a dura prova la motivazione. Quando si è poco motivati, è decisamente più difficile concentrarsi e dedicarsi al lavoro con costanza, il che influisce sui risultati, generando un circolo vizioso che rende i compiti sempre più spiacevoli.

Oltre alla scarsa motivazione, ci possono essere altre ragioni, anche più profonde, dietro al continuo rifiuto. Ci si può confrontare direttamente con il bambino, o osservare i suoi comportamenti e le sue reazioni. 

Una preziosa fonte di informazione sono gli insegnanti, che possano dare ai genitori un quadro del contesto scolastico, del rapporto con i compagni, e dell’eventuale presenza di problematiche legate all’apprendimento. 

È possibile che, dietro al rifiuto di fare i compiti, ci siano situazioni di bullismo e di isolamento sociale, così come problemi emotivi e di autostima.

 

Nei casi in cui, nonostante ricevano il totale appoggio dei genitori, bambini e ragazzi continuino a opporre resistenza allo svolgimento dei compiti, senza che si riesca a trovare una motivazione soddisfacente, è possibile affidarsi a un professionista che sia in grado di indagare le cause dietro il rifiuto. Lo psicologo, una volta compresa la situazione, potrà aiutare i genitori, anche con l’eventuale coinvolgimento degli insegnanti, a strutturare delle tecniche e delle strategie efficaci per il caso specifico, così che il momento dei compiti sia vissuto con maggiore serenità e minori conflitti e frustrazioni.

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