16 maggio 2022

I disturbi dell’apprendimento sono sempre più numerosi: perché?


Ormai è percezione comune che, entrando in qualsiasi classe, si avrà la certezza di trovare almeno un bambino o un ragazzo con una diagnosi di disturbo dell’apprendimento scolastico. Negli ultimi anni, in effetti, in Italia si è avuto un consistente – ma discutibile – aumento nelle diagnosi e nelle relative certificazioni, in particolare dei cosiddetti DSA, ma anche dei disturbi dell’attenzione e dell’iperattività, come l’ADHD.

Che si parli di dislessia, disortografia, disgrafia o discalculia, le diagnosi di disturbo specifico di apprendimento, nelle sue varie forme, sono passate dallo 0,7% del 2010/2011 (ossia 7 bambini su 1000) al 4,9% del 2018/2019, un aumento di 7 volte.


I professionisti impegnati nel mondo dei disturbi dell’apprendimento, tra cui psicologi, logopedisti, neuropsichiatri e insegnanti, si trovano generalmente d’accordo nel riscontrare tale crescita; tuttavia, le cause di questo incremento sono fonte di un acceso dibattito – e di controversie – nel mondo professionale, ma anche nell’intera società. Il presente articolo intende raccogliere le spiegazioni che negli anni sono state date al fenomeno e proporne di personali, per poi cercare – senza la pretesa di esaurire il dibattito – di integrare le varie prospettive in una visione unitaria.

 

Il riconoscimento normativo

 

Molti professionisti del settore sostengono che, per cercare di spiegare il recente incremento delle diagnosi, si debba necessariamente tenere conto dell'approvazione della legge 170 del 2010, la quale riconosce i disturbi specifici dell’apprendimento, garantendo il diritto allo studio anche per i bambini con questa diagnosi. Secondo questa legge, chi presenta questo tipo di difficoltà ha diritto a un percorso personalizzato, quindi differente dallo standard ministeriale, a condizione che la famiglia presenti adeguata certificazione. 

Prima dell’entrata in vigore di questa legge non si disponeva di criteri diagnostici sufficientemente condivisi, per cui la diagnosi risultava difficoltosa e poco riconosciuta. Per questo motivo, prima del 2010, i bambini con un disturbo dell’apprendimento non erano semplicemente individuati e, pertanto, nemmeno tutelati.


Aumentata consapevolezza e maggiore precisione diagnostica

 

Si tratta di una spiegazione strettamente legata a quella riguardante il riconoscimento normativo. Secondo i sostenitori di questa interpretazione, è ora possibile riscontrare un boom di dislessia e disturbi simili proprio perché si è cominciato a parlarne. L’approvazione della Legge 170 del 2010 avrebbe messo in moto un processo che ha generato una maggiore consapevolezza e sensibilità rispetto a queste problematiche, portando le persone a riconoscersi nei vari disturbi e quindi riuscire ad affrontare il problema.

La crescente sensibilizzazione, insieme alla maggiore attenzione, sia clinica, sia legislativa, sia propagandistica, ha portato alla diffusione, oggi praticamente universale, di programmi di screening preventivi all’interno delle scuole. Dai primi anni delle scuole elementari, i bambini vengono sottoposti a batterie di test e questionari, con l’obiettivo di individuare tempestivamente delle difficoltà che potrebbero indicare la potenziale presenza di un disturbo, difficoltà che in passato non riuscivano a trovare una spiegazione o venivano attribuite alla pigrizia, alla svogliatezza, alla stupidità o alla vivacità dell’alunno.

In questo senso, secondo questa interpretazione non sarebbero gli alunni con DSA ad essere aumentati, bensì le certificazioni. Pertanto, l’aumento nelle statistiche viene accolto, in questa prospettiva, in modo positivo, come indicatore di una maggiore sensibilità e attenzione a problematiche comunque già presenti in passato, ma non adeguatamente riconosciute e affrontate.

 

Un’eccessiva medicalizzazione dell’apprendimento

 

Un’altra prospettiva riconosce nella tendenza a fare diagnosi di disturbi dell’apprendimento un’espressione della sempre maggiore medicalizzazione della società.

 

In effetti, nonostante nei documenti ufficiali si riconosca il ruolo dei fattori sociali nella definizione e determinazione dei DSA, l’opinione comune, anche di molti professionisti del settore, è che il disturbo sia innato, geneticamente determinato e, di conseguenza, inevitabile e senza responsabili. Secondo questa interpretazione, la categorizzazione in termini biomedici di queste problematiche, prevista da manuali appositi come il DSM e l’ICD-10 (o, nella sua versione più recente, l’ICD-11), e la conseguente traduzione in categorie amministrative – con notevoli ricadute in ambito sia scolastico che sanitario – di fatto rende legittima la crescente medicalizzazione di processi come quelli di apprendimento che, per loro stessa natura, sono imprescindibilmente influenzati dal contesto sociale e dalle reali condizioni di vita degli studenti e della comunità di appartenenza.

 

L’incremento delle diagnosi celerebbe, insomma, una sorta di “epidemia diagnostica”, in cui la tendenza alla medicalizzazione si intreccia con gli interessi economici di alcuni protagonisti del processo, primi fra tutti i centri privati di diagnostica, la cui presenza sul territorio si è fatta sempre più capillare negli ultimi anni.

 

All’interno di questa prospettiva, la forte discrepanza tra nord e sud Italia rispetto al numero di studenti con una diagnosi di disturbo dell’apprendimento, che vede il sud con circa un terzo delle certificazioni emesse al nord, viene spiegata alla luce della maggiore disponibilità, nelle regioni settentrionali, di centri privati di diagnosi. In poche parole: più centri, più diagnosi. 

D’altra parte, è possibile giustificare tale incongruenza anche con la maggiore attenzione e sensibilità al tema da parte delle regioni del nord, e con una difficoltà alla diagnosi tempestiva nelle regioni meridionali, interpretazione che risulta la più popolare, ma che tuttavia pecca, a parere di chi scrive, di una certa faciloneria e superficialità: se da un lato non si possono negare le discrepanze tra nord e sud in merito alle risorse disponibili (pubbliche e private), ciò non esclude che al settentrione vi possa essere una maggiore propensione alla diagnosi, dovuta anche ad una certa inclinazione del sistema scolastico – e, in generale, della società – a cercare risposte “oggettive” per ogni sorta di problema.

Una scuola svuotata dall’interno da politiche di definanziamento progressivo si trova sempre più costretta a dover negoziare e accogliere le nuove possibilità di intervento offerte dai privati, in un costante processo di delega di quei bisogni inascoltati a cui lo Stato e la scuola non sarebbero più in condizione di dare risposta. 

Tale tendenza alimenta però un circolo vizioso, in cui l’immagine negativa del sistema scolastico, impreparato e inadeguato alle nuove e sempre più diffuse richieste, diventa funzionale sia all’affermazione del privato sociale (come i centri diagnostici sopra menzionati) sia alla giustificazione di una crescente riduzione delle politiche pubbliche (ritenute inutili e inefficienti).

 

Da parte loro, anche i genitori e gli insegnanti subiscono le stesse tensioni contrastanti prodotte dalla tendenza medicalizzante della società. Così, capita spesso che le famiglie individuino nel Piano Didattico Personalizzato (ossia il documento stilato fra docenti, famiglia e istituzioni socio-sanitarie che riporta un programma didattico personalizzato per l’alunno con necessità particolari) la risoluzione di ogni sorta di problemi del figlio, spingendo attivamente i genitori alla ricerca di una certificazione medica di diagnosi, vista come risposta a tutti i loro dubbi , anche educativi.

In quest’ottica, la firma del documento rappresenta un punto d’arrivo, la conclusione di un percorso piuttosto che il suo inizio, e viene vissuta come una sorta di contratto che sancisce non una collaborazione, bensì una delega tout court alla scuola delle difficoltà manifestate dal proprio figlio. Allo stesso tempo, il contratto si trasforma in strumento attraverso il quale canalizzare le proprie ansie rispetto alla crescita dei figli, arrivando ad esercitare un vero e proprio controllo sull’operato degli insegnanti e sulle eventuali mancate applicazioni di quanto riportato. 

Di conseguenza, si viene ad instaurare un clima di sospetto e mancata fiducia – quando non di aperto conflitto – con gli insegnanti, che non può che avere ripercussioni drammatiche sull’esperienza scolastica dei bambini e dei ragazzi.

 

“Non sono dislessico, sono straniero!”


La complessità e le contraddizioni che accompagnano la diagnosi di DSA emergono in modo emblematico prendendo in considerazione i casi che riguardano alunni di recente immigrazione o figli di genitori immigrati.

Il numero di bambini stranieri con DSA può risultare, in alcuni contesti, anche doppio rispetto a quello dei bambini italiani, un’evidente sovrastima che poco ha a che fare con la reale presenza di una neurodiversità e che sembra indicare un numero consistente di falsi positivi, vale a dire di soggetti che non superano i test diagnostici per i disturbi dell’apprendimento, senza però esserne affetti.

 

I motivi dietro alla sovrastima possono essere diversi, primo fra tutti la questione della scarsa o diversa esposizione alla lingua italiana, che ha già di per sé un enorme potere discriminante, dal momento che sia la didattica scolastica, sia i test di valutazione diagnostica, sono interamente svolti in italiano. 

In secondo luogo, la mancanza di linee guida chiare, in termini operativi, per la diagnosi di DSA nei bambini bi-plurilingue, porta di fatto a seguire lo stesso protocollo diagnostico di quello adottato con bambini italiani. Gli strumenti di rilevazione utilizzati, come i test, sono tarati per la popolazione italiana, e risultano spesso inadeguati per valutare le competenze linguistiche dei bambini stranieri. 

 

Inoltre, fatto forse più grave e generalizzabile ad altre situazioni, molte diagnosi non tengono conto delle difficoltà di inserimento in un contesto radicalmente diverso rispetto a quello del proprio paese di origine, ma soprattutto ignorano le condizioni di disagio materiale in cui molte famiglie vivono. 

Le condizioni di difficoltà socio-economica, a partire dall’insufficienza degli spazi, passando per la necessità di aiutare la famiglia nella gestione casalinga, fino all’incapacità da parte di molti genitori (stranieri e non) di seguire i figli a casa, vengono tradotti in termini medicalizzanti attraverso una diagnosi che non ha modo di cogliere le reali problematiche ma che, tuttavia, è probabilmente l’unico sistema per attivare gli strumenti di sostegno sociale previsti dalla legge.

 

Ciò apre tutto un altro capitolo, altrettanto significativo: in base alla Legge 170 del 2010, molti strumenti compensativi e dispensativi vengono concessi a scuola solo se il bambino ha ricevuto una diagnosi di DSA. Tuttavia, questo fenomeno ha una serie di conseguenze negative, a partire dalle ripercussioni dell’inserimento nella categoria della patologia/disabilità sul bambino, sul suo futuro e sulla sua immagine agli occhi della società. 

La sovrastima del numero dei DSA nei bambini stranieri, inoltre, porta a una considerevole situazione di sovraffollamento dei servizi (come la neuropsichiatria o gli ambulatori di terapia logopedica), che potrebbero non riuscire a dedicare risorse a chi
ne avrebbe effettivamente bisogno.

 

Disturbi dell’apprendimento o difficoltà di apprendimento?

 

Il fenomeno che porta a certificare diagnosi allo scopo di avere un trattamento personalizzato si generalizza per tutti gli studenti, non solo stranieri.

Per comprendere l’andamento della presenza dei disturbi dell’apprendimento nelle scuole italiane, quindi, bisogna innanzitutto operare una distinzione tra quanti sono i bambini con un disturbo dell’apprendimento, ossia che presentano un’anomalia nel funzionamento neurobiologico, e quante sono invece le diagnosi rilasciate effettivamente.

 

In questa prospettiva, ci si può rendere conto di come il numero di diagnosi corrisponda non tanto ai disturbi di apprendimento, bensì a una categoria ben più ampia e variegata, che può essere definita con “difficoltà nell’apprendimento”. Con questo termine si intende inquadrare quei bambini o ragazzi che, pur presentando difficoltà nella prestazione e voti scolastici scarsi o insufficienti, potrebbero riuscire ad ottenere risultati anche molto significativi con un aiuto specifico, orientato a sviluppare delle tecniche e strategie di apprendimento (parte essenziale del metodo di studio) e a promuovere l’autostima, la motivazione e il senso di autoefficacia.


In altre parole, spesso si confonde la scarsa prestazione con la disfunzione, ossia qualcosa che è proprio del sistema cognitivo, confondendo i sintomi con le loro cause. Così, ad esempio, bambini che sembrano avere un disturbo del calcolo, se stimolati con una didattica appropriata e rispondente ai loro bisogni e caratteristiche, possono tranquillamente raggiungere i risultati richiesti dalla scuola.

 

Il problema sorge nel momento in cui, al posto di agevolare l’inclusione e il successo scolastico del bambino, garantendogli un trattamento adeguato alle sue difficoltà, la diagnosi ha l’effetto di una mortificazione, un’etichetta che non lo fa sentire aiutato e tranquillo ma, al contrario, escluso e “diverso”. Il rischio, concreto e diffuso, è quello di disattivare le sue risorse, creando situazioni per le quali lo studente, invece di attingere alle proprie potenzialità, si abbandona alla rassegnazione della diagnosi e si accasci sul farsi sempre aiutare, aspettandosi una sorta di sostituzione alla propria – e ufficialmente certificata – inadeguatezza.

 

Dal punto di vista psicologico, tutto questo crea una sorta di identità deficitaria, destabilizzata, che porta il bambino o il ragazzo a identificarsi non con le sue risorse o capacità, bensì con la loro mancanza. Questa tendenza è rintracciabile in affermazioni, fin troppo comuni, del genere: “Non posso scrivere senza computer, io sono disgrafico”, “Mi devi leggere tu, perché io sono dislessico”, “Io sono discalculico, ho la verifica più facile”, eccetera.

 

L’orientamento alla prestazione in una scuola in difficoltà

 

A condividere la responsabilità della confusione tra disturbi di apprendimento e difficoltà nell’apprendimento è anche la scuola. Si misura se lo studente raggiunge o meno certi parametri standard, senza prendere in considerazione la qualità dell’apprendimento. In altre parole, la valutazione è operata sulla prestazione, anziché sulla funzione di ciò che si è appreso.

In quest’ottica, la diagnosi rappresenta un mero strumento per motivare dei risultati di apprendimento mediocri o negativi, che hanno però altre cause.

 

La crescente standardizzazione (e medicalizzazione) della didattica porta con sé il rischio di patologizzare la versatilità cognitiva, vale a dire il diverso modo di elaborare e organizzare le informazioni, che invece caratterizza in maniera del tutto eterogenea i bambini e i ragazzi, determinandone le peculiarità e, quindi, anche le potenzialità e il senso di identità. Tale versatilità cognitiva risulta appiattita dal sempre maggiore livellamento dei percorsi di apprendimento e valutazione, che contempla un unico modello di funzionamento e risposta, identico per tutti gli alunni, e che si nutre dell’idea che imparare significhi ripetere i contenuti in maniera ostinata, e che si possa trovare un riscontro reale di tale apprendimento in un voto.

 

Dal punto di vista del sistema scolastico odierno, è sicuramente più facile da gestire uno studente con una certificazione, rispetto a educare un bambino che ha solo bisogno di tempi più lunghi degli altri e di un'attenzione particolare da parte dell'insegnante.

Così i percorsi didattici alternativi e facilitati, costruiti ad hoc su una categoria di bisogno definita per legge e per diagnosi, possono apparire seduttivi per quegli insegnanti che, presi nella morsa di un carico di lavoro eccessivo, con mansioni che derogano dallo stretto compito educativo e con risorse ridotte all’osso, finiscono per cedere alla tentazione della delega al sistema sanitario per avere un percorso preconfezionato, e quindi rassicurante, già completamente descritto e prescritto. Ecco che, nel dubbio tra difficoltà e disturbo, si sceglie di certificare il disturbo.

 

Conclusioni

 

Nel tentativo, sicuramente ambizioso, di sintetizzare un argomento estremamente complesso e presentare prospettive anche molto diverse tra loro, si spera di essere riusciti a fornire un quadro il più possibile completo e approfondito.

È giunto ora il momento di tirare le fila e avanzare delle considerazioni personali, che derivano sia da quanto analizzato nel presente articolo, sia dalla mia esperienza professionale.

Se da una parte non è possibile negare tout court l’esistenza dei disturbi dell’apprendimento, che rappresentano effettivamente una neurodiversità che caratterizza un certo numero di studenti, sia nel presente ma anche nel passato, dall’altra non è plausibile ridurre la spiegazione del loro aumento nell’ultimo decennio solo alla maggiore consapevolezza e sensibilità derivante, tra le altre cose, dall’approvazione della Legge 170 del 2010. 

Esistono numerosi altri fattori in gioco, tra cui spiccano la tendenza medicalizzante della scuola e della società in generale, la crisi educativa e familiare della contemporaneità e le difficoltà del sistema scolastico, incastrato in un’ottica prestazionale che vede solo il risultato quantificabile e dimentica la persona.

 

Un approccio didattico sensato, che rispetti i ritmi di apprendimento individuali e che valuti il percorso compiuto, e non il mero raggiungimento di determinati standard, risulta ad oggi assolutamente utopico. Tuttavia, questo tipo di approccio può rappresentare una modalità efficace per operare una giusta distinzione tra i disturbi di apprendimento (da certificare e includere) e le difficoltà di apprendimento, inevitabilmente più complesse perché non chiaramente categorizzabili, a cui far fronte in altri e differenti modi.

 

 

Perché semplicemente non è vero che tutti i bambini che non sanno leggere sono dislessici, mentre è vero che una diagnosi incauta e impropria può generare un circolo vizioso insidioso, composto da una parte da una performance scolastica insufficiente e dall’altra da problemi emozionali e motivazionali, fino al rifiuto e all’abbandono scolastico, o una scelta di basso profilo rispetto alle potenzialità effettive.

 

Ciò che manca nel dibattito sui disturbi dell’apprendimento, insomma, è un’analisi dei rischi, in termini di conflitto sociale, stigma e discriminazione, connessi alla patologizzazione di processi complessi come quelli di apprendimento che, pur essendo per loro natura fortemente influenzati dalle esperienze personali, dalle condizioni di vita concrete e dalle influenze socio-culturali, subiscono una notevole – e inaccettabile – distorsione nel momento in cui sono sottoposti alla valutazione psicometrica e alla catalogazione diagnostica, finalizzata all’individuazione netta del confine tra ciò che è definito normale e ciò che è patologico.

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