21 ottobre 2022
Stress e digestione: quando il corpo manda segnali
Stress, tensione emotiva in eccesso, sedentarietà e disordini alimentari sono frequentemente associati a problemi digestivi, cosa che influenza considerevolmente la qualità della vita, con ricorso sempre più comune a visite mediche, test diagnostici, assunzione di farmaci e continue assenze dal lavoro.
È noto che stomaco e intestino risentano in maniera chiara e significativa dei cambiamenti nello stile di vita e nello stato psichico. Come naturale conseguenza, non è possibile cercare di risolvere le problematiche del primo senza intervenire sull’altro. Per avere una buona digestione e diminuire il rischio di problemi allo stomaco, con tutti le annesse e connesse sgradevoli conseguenze, è essenziale prendersi cura di sé e del proprio benessere, sia fisico che mentale.
L’intestino, il “secondo cervello”
Come ormai dimostrato da numerosissimi studi, non si tratta solo di un'impressione soggettiva o di un fenomeno casuale: il benessere psichico e la funzionalità dell'apparato gastrointestinale sono intrinsecamente legati tra loro, influenzandosi reciprocamente in modo continuo.
Il sistema nervoso enterico, che attraverso vie specifiche del sistema nervoso autonomo e meccanismi ormonali raffinati regola il nostro intestino, viene anche chiamato in maniera significativa “secondo cervello”. In continua comunicazione con il resto del corpo, questo secondo cervello può essere considerato il centro di elaborazione di tutti i “dati” percepiti dalle cellule nervose dell’apparato gastrointestinale.
I due cervelli (o meglio, i due sistemi nervosi, quello centrale e quello enterico) comunicano attraverso un fitto dialogo di impulsi. Il primo cervello, quello “cranico”, è in grado di alterare il normale funzionamento di quello “enterico” interferendo con i suoi ritmi, ma è altrettanto vero il contrario. Stomaco e cervello, quindi, si condizionano a vicenda.
Come non bastasse, il sistema nervoso enterico contiene circa il 90% della serotonina, comunemente definita “neurotrasmettitore del benessere”, per le sue proprietà antidepressive, e il 50% della dopamina presente nel corpo umano. Queste due sostanze che svolgono un ruolo chiave nella regolazione del tono dell’umore, nelle emozioni, nella sessualità, nelle funzioni cognitive, nella regolazione del sonno e dell’appetito.
Per esempio, quando si mangia un piatto gustoso il sistema digerente attiva i propri recettori, facendo aumentare al corpo la produzione di serotonina. Una volta che questa raggiunge il cervello, si produce quella sensazione di piacere e benessere associata al consumo di un alimento gradito. Al contrario, secondo lo stesso meccanismo, quando si presenta un’infiammazione in sede intestinale gli enzimi presenti inibiscono la serotonina, provocandone un deficit a livello celebrale. La conseguenza è rappresentata da una sensazione di malessere, fino ad arrivare, in alcuni casi, a vere e proprie condizioni depressive. A riprova di questa interconnessione, risulta significativo che, il più delle volte, le persone afflitte da depressione riscontrino difficoltà nell’alimentazione, che può diventare smodata ed eccessiva o, al contrario, estremamente selettiva o insufficiente.
Gli effetti dello stress
Lo stress è una condizione complessa, provocata da sollecitazioni esterne e/o interne all'organismo, che causa una compromissione nel mantenimento dell'equilibrio fisiologico e psicologico, o omeostasi, a più livelli e con vari gradi di severità.
In generale, lo stress può essere causa di problemi come stanchezza, irritabilità, ansia, mal di testa, digestione lenta, bruciori di stomaco, insonnia e tensioni muscolari. Può persino arrivare a compromettere le difese immunitarie, portando ad ammalarsi più facilmente e con maggiore frequenza.
Pur influenzando l’intero organismo, l'apparato gastroenterico è indubbiamente uno dei primi a subire gli effetti dello stress, sia esso acuto o cronico. I problemi di stomaco sono uno dei primi e più comuni modi con cui il nostro organismo manifesta il suo malessere.
Ansia e stress possono determinare manifestazioni differenti da persona a persona, in relazione alla sensibilità individuale e all’eventuale presenza di altre problematiche a carico dell‘apparato digerente.
Se la somatizzazione dello stress si concentra nella parte superiore del sistema digestivo, si possono sperimentare soprattutto i sintomi tipici della dispepsia funzionale e del reflusso gastroesofageo, come difficoltà nella digestione, gonfiore e pesantezza dopo i pasti, mal di stomaco o crampi persistenti.
Un’altra manifestazione può consistere nell’aumento dell’acidità gastrica, con conseguente bruciore di stomaco e gastrite nervosa (vale a dire l'infiammazione della mucosa gastrica dovuta allo stress), eruttazioni e reflusso acido, con possibili fastidi fino alla gola, nausea, vomito, mal di testa e difficoltà di concentrazione.
Il disagio a livello intestinale, invece, si esprime sotto forma di sintomi generalmente riferibili alla cosiddetta sindrome del colon irritabile, come mal di pancia localizzato nella parte inferiore dell'addome, gonfiore intestinale, meteorismo, flatulenza, fitte e crampi addominali, stitichezza e/o diarrea (spesso alternate tra loro).
Quando i dolori sono presenti in modo cronico, si ha uno scadimento considerevole nella qualità di vita, che a sua volta ha conseguenze fortemente negative sullo stato mentale, già compromesso da ansia e stress. In questo modo si va ad innescare un circolo vizioso che si autoalimenta continuamente, molto difficile da contrastare. Ultimo ma non ultimo, questa dinamica rischia di avere un impatto negativo anche su altri aspetti della vita, come la qualità del sonno.
Un problema comune: l’insonnia
I problemi a livello del sistema digerente sono alla base della liberazione di elevate quantità di cortisolo nell'organismo, definito l'ormone dello stress, prodotto delle ghiandole surrenali su stimolazione del cervello. Insieme a nervosismo, preoccupazioni, stress e ansia, ciò provoca problemi a riposare in modo sereno, con frequenti risvegli e sonno agitato, addormentamento difficoltoso o risvegli precoci, fino ad arrivare all’insonnia, il che ha comprensibilmente un impatto significativo a livello fisico e psicologico.
L’insonnia, dovuta alla tensione mentale provoca stanchezza e debolezza durante il giorno, porta ad irritabilità e nervosismo e abbassa il tono dell’umore, tutte problematiche che, a loro volta, possono interferire con l’appetito e la funzionalità dell'apparato digerente.
Inoltre, il travaglio notturno è alla base di tutta una serie di alterazioni biologiche negative, con effetti anche sulla salute gastrointestinale. Questo circolo vizioso, lo stress che crea problemi all'apparato digerente e i problemi di digestione che causano ulteriore stress, impattano di conseguenza sullo stato psichico dell'individuo, che può arrivare a forme di malattia vere e proprie.
Quando i problemi diventano cronici
Se la situazione di stress si protrae a lungo, i disturbi nella digestione possono diventare sempre più frequenti, fino a diventare cronici. In questi casi, possono comparire la dispepsia funzionale o le ulcere gastriche e duodenali.
La dispepsia funzionale comporta tutta una serie di difficoltà digestive, come sensazione di sazietà precoce, bruciore di stomaco, gonfiore, dolori addominali, eruttazioni e meteorismo, talvolta accompagnati da nausea e vomito o seguiti da alterazioni del transito intestinale, come stitichezza o, all’opposto, malassorbimento e diarrea. Queste sono tutte manifestazioni estremamente comuni tra chi soffre di stati d'ansia o è esposto a fonti di stress intenso o relativamente modesto, ma protratto nel tempo.
Inoltre, con stress e ansia molto intensi, in aggiunta ai problemi gastrointestinali, possono manifestarsi anche altri sintomi fisici, come accelerazione del battito cardiaco, palpitazioni e aumento della sudorazione, con tutto il malessere associato a queste sgradevoli esperienze.
Infine, allo stabilizzarsi dei sintomi fisici, si consolidano anche malessere e disagio psichico, oltre a problematiche più o meno gravi, dall’evitamento di certi alimenti o situazioni, fino a condizioni clinicamente depressive.
Come intervenire
Se da una parte i problemi di stomaco e di digestione sono un fastidio comune, così come lo sono lo stress e le ansie quotidiane, non è comunque facile trovare una strategia di intervento univoca e valida per tutti, a indicare la complessità della relazione.
Il mal di stomaco e i disturbi intestinali possono avere cause ampiamente variabili e non sempre di immediata identificazione. Così, nell’affrontare una situazione di malessere gastroenterico significativa o persistente, è sempre opportuno rivolgersi al medico per ottenere una diagnosi precisa, o quantomeno arrivare ad escludere eventuali patologie che necessitino di trattamenti medici specifici.
Una volta appurato che la dispepsia e il malessere siano di natura psicosomatica, ovvero legati a stress e stati ansiosi, sarà possibile adottare una serie di interventi, alcuni che si limiteranno ad agire sui sintomi, altri sulle cause del problema.
Nell’immediato è possibile ricorrere a farmaci, come gli antiacidi, per tenere sotto controllo le manifestazioni più fastidiose e placare i sintomi. Tuttavia, se non si interviene sulle cause, il problema tenderà a ripresentarsi, spesso in maniera anche più accentuata, con dispepsia (cattiva digestione) persistente e/o disagio intestinale ricorrente, complice anche l'assuefazione (con conseguente diminuzione degli effetti) ai farmaci.
Assumere rimedi sintomatici al bisogno è certamente utile, ma non risolve il problema alla radice. Per poter affrontare veramente, e si spera definitivamente il problema, è necessario focalizzarsi sulle sue cause che lo generano, cominciando dunque un lavoro che esplori la propria tendenza allo stress, le motivazioni che portano agli stati ansiosi e il contenuto delle preoccupazioni che fanno stare tanto male.
Attraverso un percorso psicologico si potrà ristabilire un equilibrio psicoemotivo, in modo da vivere più serenamente i momenti dell’alimentazione con conseguente miglioramento della qualità di vita generale.
05 settembre 2022
Stress da rientro: come affrontare il ritorno dalle vacanze
La tanto attesa pausa estiva appena arrivata, è già finita. Si torna in città, con tutto ciò che questo comporta: il lavoro, il traffico, le commissioni sempre di fretta, gli appuntamenti pressanti, il telefono che squilla... in poche parole, la vita di tutti i giorni.
È molto comune vivere il rientro dalle vacanze con una certa ansia e con la sensazione di non riuscire a stare al passo con tutti gli impegni, anche gli stessi che, durante l'anno, sono invece affrontati con disinvoltura e spirito organizzativo.
Come non bastasse, a causa dei ritmi e delle richieste sociali e lavorative sempre più incalzanti improntate alla performance e alla responsabilità, i periodi che vengono immediatamente dopo le vacanze sono i più pesanti in termini di carico di lavoro, proprio per compensare l’assenza e recuperare il tempo “perso”. Questa consapevolezza provoca un considerevole stress, il quale può avere conseguenze negative non solo sulla vita al rientro, ma persino sulla vacanza stessa.
Definita da molti psicologi e professionisti del settore “sindrome da rientro al lavoro", a opinione di chi scrive in modo eccessivamente medicalizzante, questo tipo di malessere è però una condizione molto comune che, solitamente, regredisce spontaneamente in breve tempo.
Come riconoscerla
Le vacanze finite
sono motivo di tristezza per tutti. Tuttavia, è possibile che
l’infelicità si rifletta anche sul piano somatico, associandosi a
mancanza di energie, difficoltà a concentrarsi, mal di testa e
diffuso senso di malessere. Si possono avere difficoltà a dormire e
si può essere piuttosto irritabili.
In alcuni casi, soprattutto per le persone più predisposte, lo stress può avere importanti conseguenze sulla digestione e provocare disturbi gastrointestinali. Molti avvertono con un certo disagio una sensazione di perdita delle competenze, come percepire di non essere più capaci in certe attività o nel proprio lavoro.
In sostanza, si può riassumere il concetto considerando come, dopo un periodo di svago e di riposo, l’impatto con la routine e i doveri può essere motivo di crisi per l’individuo, talvolta fin dagli ultimi giorni di vacanza.
Per questo motivo, dunque, non è appropriato definire una momentanea difficoltà di vita come una patologia, come sembra essere la tendenza negli ultimi anni, soprattutto da parte del mondo anglosassone. Piuttosto, si tratta di una risposta psicofisiologica alla reimmersione nello stress, che può riguardare, trasversalmente e con sfumature diverse, soggetti di età differenti.
Cosa si può fare?
Pur avendo assodato che lo stress da rientro rappresenta una condizione momentanea non significa che non possa essere motivo di forte malessere e provocare sofferenza in chi lo avverte. Per questo è importante adottare una serie di accorgimenti per attutire l’impatto del ritorno alla routine e affrontare con maggiore tranquillità il periodo post-vacanze.
Pensare a una gradualità
Per evitare cambiamenti repentini, sempre destabilizzanti, è preferibile fare in modo di abituarsi al rientro per tempo, preparandosi in modo progressivo. Sul finire delle vacanze e in prossimità del ritorno a casa, si può cominciare a recuperare le abitudini della vita di tutti i giorni, ad esempio evitando abbuffate e festini o cercando di andare a dormire agli orari seguiti per il lavoro.
Una volta rientrati, le consuete attività vanno riprese con gradualità, dandosi del tempo per abituarsi ai nuovi, vecchi, ritmi.
A questo proposito, è consigliabile non rientrare dalle vacanze la sera prima di ricominciare a lavorare, per quanto ciò rappresenti una tentazione per “godersi” il periodo di riposo. Piuttosto è meglio lasciare almeno un giorno o due di decompressione, per riabituarsi al ritorno alla routine.
Questo perché, durante le vacanze, ci si abitua a orari e luoghi diversi (a volte davvero molto diversi), così che avere del tempo per riorganizzarsi con calma può rendere il passaggio meno brusco e traumatico.
Inoltre, in
questo modo ci si può riabituare alla sveglia, alla pausa pranzo e
all’idea di ritornare in ufficio, seguendo i ritmi del proprio
corpo e non quelli dell'orologio.
Durante i primi giorni, è opportuno procedere per piccoli obiettivi partendo dagli impegni meno complessi, senza farsi sommergere dalla mole di lavoro. In questa fase è essenziale concedersi le necessarie ore di riposo notturno e dare una particolare attenzione ai momenti di svago e di pausa.
Solo in un secondo momento, a fase di acclimatamento conclusa, si può passare a dedicare tempo ed energie a progetti più impegnativi, per i quali sono necessari più giorni e la collaborazione di più persone.
Il discorso della gradualità è particolarmente importante anche per chi ha dei figli che vanno a scuola. Non bisogna dimenticare che lo stress da rientro non colpisce solo gli adulti con i loro impegni lavorativi, ma può rappresentare un grosso ostacolo anche per bambini e ragazzi che, dopo mesi di vacanze, routine sregolate ed eccezioni alle regole, si trovano a dover tornare sui banchi, per giunta per diverse ore.
Per alcuni il rientro è vissuto come un vero e proprio lutto e può coincidere con una forte demotivazione, vissuti da non sottovalutare e che i genitori, ma in generale gli adulti, possono e devono aiutare ad elaborare e superare.
Riprendere (o iniziare) abitudini salutari
Nella maggior parte dei casi, una delle strategie principali per contrastare il malessere è proprio promuovere il benessere. Curare l’alimentazione, che deve essere il più possibile corretta, regolare e bilanciata, per non aggiungere problemi di digestione a una situazione già stressante.
Al contrario, combattere il malumore con l’assunzione di alcolici o con il fumo, non solo non risolve il problema, ma spesso tende a peggiorarlo.
Oltre all’alimentazione, anche praticare attività fisica regolarmente può rappresentare un utile obiettivo per l’autunno.
Se dal punto di vista meramente chimico lo sport favorisce il rilascio delle endorfine, che stimolano un senso di benessere e buonumore, si può anche considerare come l’attività fisica possa essere un’occasione per stare all’aria aperta (come durante le vacanze), oppure un’opportunità dal punto di vista sociale e relazionale, diventando un momento di svago e distensione.
Dare spazio a ciò che piace
Quando si torna alla routine, molti rimpiangono l’aria aperta che caratterizza i giorni di vacanza, il sole, le nuotate, le passeggiate, insieme alle sensazioni positive così piacevoli che permeavano tutto il corpo.
Al posto di disperarsi per la vacanza finita, si può cercare di approfittare del rientro e del provvisorio stato di benessere cercando di dedicare più tempo a sé stessi, svolgendo un’attività che sia piacevole e gratificante.
Leggere un libro, fare una passeggiata, uscire con gli amici, fare shopping o prendere un appuntamento dal parrucchiere sono solo alcuni semplici esempi, ma ognuno conosce i propri gusti e inclinazioni e sa cosa funziona per sé, e potrà in autonomia scegliere le semplici ma positive attività per non rimpiangere la fine del periodo di pausa appena terminato.
Più di ogni altra cosa, insomma, è fondamentale non “seppellirsi” immediatamente in casa o in ufficio per i mesi a seguire, bensì ritagliarsi degli spazi per sé, anche se piccoli, ma significativi.
Perché andare in vacanza dovrebbe essere un sì un periodo di svago, pausa e distrazione, ma anche un modo per ricordare il bisogno essenziale di praticare attività gratificanti, in ogni momento dell’anno.
Ricordare senza nostalgia
Non bisogna dimenticare il lato pratico che, come spesso accade, ha importanti risvolti psicologici. La valigia va disfata il prima possibile, evitando di lasciarla in giro per giorni (o settimane), per pigrizia o paura di provare nostalgia della vacanza finita. Rimanere ancorati a quello che è stato, tenendo la valigia piena, non aiuta a rientrare nella quotidianità, oltre ad essere un fattore concreto di caos e disordine, cause notorie di stress e deconcentrazione.
Se quindi è importante cercare di riporre tutto in ordine il prima possibile, ciò non significa mettere totalmente da parte quello che è stato, magari scacciando pensieri e divagazioni mentali su quanto è stata piacevole la vacanza e su momenti felici che si sono vissuti. Piuttosto, anche se ovviamente con moderazione, si possono consultare le immagini delle vacanze appena finite, magari condividendole e scambiandole con amici e parenti, insieme ai racconti e agli aneddoti delle proprie avventure e disavventure. Tenere con sé le fotografie e gli oggetti di una vacanza può essere un modo per rievocare i momenti felici trascorsi, ma non come fuga dalla realtà, bensì come supporto per fronteggiare situazioni particolarmente stressanti o in cui si sente sotto pressione.
Organizzare la prossima fuga
In maniera simile, si possono assecondare i pensieri e le divagazioni a tema vacanze, a patto che, però, si traducano in progetti concreti. Il momento del rientro delle vacanze, in questo senso, diventa il migliore per programmare gite fuori porta o finesettimana fuori città, un modo gradevole per rendere più dolce il ritorno a responsabilità e doveri.
Ma la fuga dalla routine non deve essere necessariamente un altro viaggio: a volte basta organizzare qualcosa per la settimana, come una cena o un caffè tra amici, per non abbandonarsi al solo lavoro.
Darsi degli obiettivi (e seguirli)
Settembre è il momento ideale per porsi obiettivi e buoni propositi per stare bene e su cui lavorare fino alla prossima estate.
Ci si può cimentare in nuovi hobby e attività, magari scoperti durante le vacanze, oppure tentazioni che si rimandano da tempo, come iscriversi a un corso di formazione, entrare a far parte di una scuola di ballo o unirsi ad una compagnia teatrale.
Non è necessario che siano cose grandi o cambiamenti radicali. Anzi, procedere per piccoli passi contribuirà a mantenere la continuità nei propositi.
E se non fosse solo stress?
In conclusione, lo stress
da rientro è una condizione di malessere molto diffusa e rappresenta
una momentanea difficoltà di adattamento alla vita di routine. Tutte
le sensazioni spiacevoli provocate dal ritorno dalle vacanze sono
destinate a scomparire in breve tempo, non appena i ritmi
dell'organismo si siano riabituati ai tempi e alle responsabilità
della vita quotidiana, agevolati dai piccoli e semplici accorgimenti
citati in questo articolo.
Tuttavia è importante non sottovalutare i segnali. Il malessere da rientro presenta numerose sovrapposizioni con altre problematiche, di natura depressiva, che sono invece più radicate e persistenti.
Se il malessere dovesse continuare o provocare un disagio ritenuto eccessivo, è consigliabile cercare il supporto di un professionista, in grado di distinguere tra crisi passeggera e problema radicato.
Inoltre, lo stress da rientro altro non è, in sostanza, che una manifestazione legata all’ansia, nelle sue varie sfaccettature. Solo comprendendo il motivo per cui si tende a rimandare tutto il lavoro a settembre, o che induce a non ritagliarsi mai uno spazio per sé fino a che non si è esauriti, è possibile evitare del tutto di provare il malessere post vacanze. L’ansia nella vita quotidiana affligge molte persone, in gradi differenti. Analizzandone il messaggio è possibile contenerla e adoperarla a proprio vantaggio, per dominarla senza più esserne dominati.
Da una cosa apparentemente banale come lo stress da rientro, passeggera e facilmente superabile, scaturiscono però domande e riflessioni anche significative che, se accompagnati da un professionista, possono trovare risposte e modi nuovi di affrontare le situazioni e i momenti di difficoltà.
18 luglio 2022
Quando il corpo è nemico: il dismorfismo corporeo

In una società dell'immagine, preoccuparsi del proprio aspetto diventa una spinta difficile da ignorare. Se da una parte, negli adolescenti ma non solo, non si può biasimare il desiderio (tutt’altro che patologico) di piacere ed essere apprezzati dagli altri, dall’altra sono comunque necessari equilibrio e misura.
È essenziale fare una distinzione tra un’attenta cura di sé e l'espressione di un disagio psicologico profondo, espresso nella persistente insoddisfazione nel modo in cui si appare.
Quando si nota, in sé o nei propri cari, un'attenzione esagerata a dei dettagli trascurabili del proprio aspetto, oppure il ricorso ripetuto, fino all’abuso, a trattamenti cosmetici o interventi chirurgici più o meno invasivi, è concreta la possibilità di trovarsi di fronte ad un disturbo di dismorfismo corporeo.
Che cos’è?
Si tratta di un’eccessiva preoccupazione per uno o più difetti corporei, anche minimi o totalmente assenti, ma che vengono percepiti comunque come profondamente disturbanti, intollerabili e sgradevoli, al punto che, solitamente, chi soffre di questo disturbo arriva presto a definirsi brutto, anormale o deforme. La percezione di questi difetti è fonte di intensa vergogna e disagio profondo, con notevoli conseguenze negative sullo stile di vita e sulla qualità dei rapporti sociali.
A tal proposito, la discrepanza tra il modo in cui queste persone vedono loro stesse e quello in cui le vedono gli altri è causa di notevoli attriti nelle relazioni, in quanto chi soffre di dismorfismo corporeo tende a non credere alle rassicurazioni altrui sul proprio aspetto "normale".
Come se non bastasse, la maggior parte delle persone affette da questo disturbo presenta idee o deliri di riferimento, cioè ha la ferma convinzione che gli altri notino in modo particolare le aree corporee "difettose", ne parlino fra di loro o le prendano in giro di nascosto, il che è comprensibilmente alla base di considerevoli problemi nell’instaurare un rapporto di fiducia con il mondo esterno.
Dall’altra parte è interessante considerare come chi presenti questo disturbo riesca a riconoscere razionalmente che le personali convinzioni in merito al corpo e all’aspetto fisico siano irrealistiche o comunque esagerate, e possa essere consapevole del proprio accanimento estetico.
Tuttavia, l’intenso senso di vergogna e imbarazzo spinge in modo irrefrenabile a adottare comportamenti eccessivi nella cura di sé, a volte anche contro il proprio volere. Come affermano spesso molti pazienti, cercando di spiegare i propri comportamenti: “È più forte di me”.
Come si manifesta
Soprattutto nelle persone che si rendono conto dell’esagerazione delle proprie convinzioni, quindi, i pensieri relativi ai difetti fisici percepiti sono vissuti come intrusivi e indesiderati, arrivando ad occupare un tempo considerevole della giornata, addirittura tra le 3 e le 8 ore al giorno.
Le preoccupazioni sono più frequentemente focalizzate su aree corporee specifiche, come la pelle (acne, cicatrici, rughe), i capelli o i peli (diradamento o peluria eccessiva sul viso o sul corpo). L’attenzione si può inoltre concentrare sulla forma o le dimensioni di una parte del corpo, come naso, occhi, denti, orecchie, bocca, seno, gambe o glutei. Qualsiasi parte del corpo può comunque essere oggetto di preoccupazione.
Una condizione particolare è rappresentata dalla dismorfia muscolare, in cui le persone, soprattutto maschi, pur avendo un fisico normale (o addirittura atletico) si reputano gracili e tentano in tutti i modi di aumentare il peso e la muscolatura.
Le zone del corpo non accettate sono tipicamente descritte come brutte, poco attraenti, deformi, ripugnanti o mostruose. A questi pensieri si associano frequentemente comportamenti compulsivi specifici, che hanno lo scopo di ridurre, anche se solo temporaneamente, il senso di disagio e di angoscia.
Chi presenta dismorfismo corporeo è portato a confrontare costantemente il proprio aspetto fisico con quello delle altre persone, trascorrendo molto tempo della giornata, soprattutto quando si è in compagnia, a nascondere il supposto difetto. Molti sono alla continua ricerca di rassicurazioni rispetto a come appaiano le imperfezioni percepite. I momenti sociali sono inoltre vissuti con forte ansia, in particolare per la paura che gli altri notino il presunto difetto fisico. Per questo motivo si ha la tendenza a evitarli, fino a che, nei casi più estremi, ci si isola in casa per sfuggire al potenziale giudizio altrui.
Questi individui hanno un rapporto ambivalente anche con lo specchio, alternando momenti in cui si guardano continuamente in qualsiasi superficie riflettente, ad altri in cui queste sono evitate in maniera categorica.
Per camuffare i presunti difetti si usano strategie come l’uso eccessivo di cosmetici, acquistati compulsivamente, o il ricorso a vestiti e accessori (come gli occhiali da sole), che possono essere cambiati più volte durante la stessa giornata. Per fare un esempio, un uomo può farsi crescere la barba per nascondere presunte cicatrici, oppure indossare un cappello per coprire un lieve diradamento dei capelli.
In molti casi, queste persone si appellano alla chirurgia estetica. Tipicamente l'intervento effettuato si rivela inutile, in quanto non agisce sulla preoccupazione ossessiva in sé, che permane a prescindere dal nuovo aspetto esteriore.
Diffusione
Anche a causa delle pressioni socioculturali discusse nell’introduzione di questo articolo, negli ultimi anni il disturbo da dismorfismo corporeo è diventato un problema piuttosto comune.
Ciò che risulta particolarmente allarmante è il fatto che, per le sue caratteristiche, questo disturbo tende ad essere decisamente sottovalutato e, di conseguenza, sotto-diagnosticato. I casi potrebbero dunque essere molto più numerosi dei dati ufficiali, falsati anche dalle richieste di aiuto portate a specialisti che non si occupano di salute mentale, primi fra tutti i chirurghi plastici, e quindi non conteggiate.
Infine, gli individui con dismorfismo corporeo tendono a non rivelare i propri sintomi nemmeno al medico, per il forte senso di vergogna che provano, ma anche perché non sono informati sui trattamenti clinici specifici e adeguati a risolvere questo tipo di problema.
Quando si manifesta
Come in molti altri casi, anche il disturbo da dismorfismo corporeo può presentarsi in qualsiasi momento dell’esistenza di una persona. Tuttavia esistono due periodi della vita in cui vi è una maggiore incidenza.
Il primo è durante l’adolescenza, vale a dire la fase di sviluppo in cui le trasformazioni profonde e improvvise del corpo possono rivelarsi particolarmente difficili da accettare e gestire. Il secondo, invece, è l’età compresa tra i 45 e i 50 anni, ossia quando i primi segni dell’invecchiamento si scontrano, spesso violentemente, con il desiderio di piacere nonostante i segni del tempo, anche alla luce di una società che promette ideali di giovinezza eterni.
Se non trattato, il disturbo diventa parte integrante dell’identità della persona, cronicizzandosi. Quando ciò accade, si possono verificare conseguenze anche molto spiacevoli, su cui è difficile intervenire.
Quando preoccuparsi
Ribadendo l'evidenza che sono molte le persone non soddisfatte del proprio aspetto, è tuttavia importante considerare come questa insoddisfazione viene affrontata. Se la quantità di tempo ed energie dedicate a quella parte del corpo causa delle conseguenze negative sul funzionamento quotidiano (come insicurezza eccessiva o mancanza di relazioni) oppure provoca un considerevole disagio emotivo, allora è possibile che ci si trovi di fronte ad un disturbo.
Ci sono molti segnali di allarme che possono esprimere modi in cui il disturbo da dismorfismo corporeo può rappresentare un ostacolo.
A scuola si possono avere difficoltà a prestare attenzione, perché sempre distratti e preoccupati dal proprio aspetto. Oppure arrivare in orario a lezione può diventare una vera sfida, se la vestizione e la cura di sé della mattina richiede troppo tempo. Per lo stesso motivo, anche la qualità del sonno può essere scarsa, per la necessità di doversi alzare molto presto per prepararsi.
Inoltre può essere difficile mantenere dei buoni voti, quando l'unica cosa a cui si riesce a pensare è, ad esempio, se i compagni possano vedere o meno i brufoli sul mento. Nei casi più estremi, i soggetti affetti da questo disturbo non riescono a frequentare la scuola, fino al rifiuto e all’abbandono scolastico.
Negli adulti la presenza del disturbo porta a maggiori difficoltà sociali, che si manifestano con più alti tassi di disoccupazione e un maggior isolamento sociale.
Gli intensi sentimenti di colpa e di vergogna associati al disturbo da dismorfismo corporeo contribuiscono a spiegare l’alto tasso di ideazioni suicidarie (ossia pensare, fantasticare, considerare o pianificare di togliersi la vita) e tentativi di suicidio effettivi, che tristemente contraddistinguono questo tipo di persone.
A tal proposito, per capire l’entità del fenomeno, basti pensare che, nel corso della vita, circa l’80% delle persone con disturbo da dismorfismo corporeo manifesta ideazione suicidaria, e il 25-30% di questi tenta infine il suicidio. Si tratta dunque di una problematica da non sottovalutare, e da affrontare non appena la si identifichi, in sé o in qualcuno a noi vicino.
Come intervenire
Dal momento che molti individui con dismorfismo corporeo provano un forte imbarazzo o esitazione nel condividere i propri pensieri con gli altri, per paura di essere fraintesi, i familiari o gli amici sono spesso confusi e disorientati. Tipicamente si riconosce l’esistenza di un problema, senza riuscire però ad identificarlo. Il difetto fisico di cui si preoccupano queste persone non è visibile agli altri o è così lieve che i familiari hanno difficoltà a comprendere il suo dolore emotivo e i suoi comportamenti, i quali sono spesso giustificati come eccentrici o sopra le righe.
Come se non bastasse, i sintomi del disturbo da dismorfismo corporeo possono essere molto simili a quelli di altre patologie, come la depressione, l’ansia sociale o il disturbo ossessivo compulsivo. In effetti, questo disturbo si manifesta molto spesso insieme ad altre problematiche, che rendono il quadro ancora più complesso e difficile da affrontare.
La maggior parte delle persone che soffre di dismorfismo corporeo è riluttante a ricorrere alla terapia psicologica o ai farmaci psichiatrici, preferendo credere che i chirurghi estetici e i dermatologi possano offrire soluzioni più efficaci e rapide rispetto a un professionista della salute mentale.
Se da un lato incoraggiare la persona amata a cercare un trattamento può essere difficile e impegnativo, è necessario costruire una relazione di fiducia e comunicazione, attraverso cui incoraggiare, in maniera graduale, un cambiamento positivo.
Chi cerca di aiutare una persona cara con questo problema dovrebbe inoltre tenere a mente che, molto spesso, intraprendere un percorso psicologico è fonte di ansia e timore. È necessario quindi essere pazienti e cercare di comprendere la difficoltà che scegliere di farsi aiutare comporta, senza supplicare o forzare il trattamento.
Piuttosto, l'idea di cercare un aiuto esterno può essere introdotta con delicatezza, non troppo spesso, magari suggerendo i benefici che si possono trarre da un sostegno per migliorare la depressione o l'ansia associata all'insoddisfazione per il proprio aspetto. Per la persona potrebbe essere meno intimidatorio chiedere un aiuto per affrontare la depressione e l'impatto che il dismorfismo ha sulla sua vita, piuttosto che affrontare direttamente il disturbo in sé.
È importante considerare che esprimere la propria preoccupazione per la persona amata può essere sì una motivazione per cercare aiuto, ma può anche aumentare il senso di colpa. Per questo è preferibile mantenere l'attenzione su come la persona amata possa beneficiare del sostegno di un professionista, piuttosto che esprimere come la sua malattia influisca negativamente su di sé e sulla propria vita.
In questo senso, è essenziale creare un ambiente positivo e di sostegno, trascorrendo del tempo con la persona amata e rassicurandola sulla propria disponibilità e vicinanza. Non si deve dimenticare che la maggior parte degli individui affetti da dismorfismo corporeo lotta contro la bassa autostima, la vergogna e il senso di colpa, per cui ogni sostegno, anche se può non sembrare nell'immediato, fa la differenza.
A questo proposito, avere a che fare con una persona che soffre può essere fonte di dolore, rabbia, frustrazione e disperazione. Per questo motivo è essenziale riuscire a prendere consapevolezza dei momenti in cui, per poter aiutare, si deve prima ricevere aiuto, cercando la consulenza e il supporto di un professionista.
Dal punto di vista professionale, l’intervento per il disturbo da dismorfismo corporeo presuppone una rielaborazione cognitiva e la messa in discussione dei propri errori di valutazione, in modo da portare all’accettazione della propria identità, il vero problema sottostante all’espressione sintomatologica.
L’obiettivo del percorso psicologico è molteplice. Da un lato, si aiuta l’individuo a sviluppare una visione estetica più accurata e funzionale, e contemporaneamente si lavora per impedire la messa in atto dei comportamenti ripetitivi eccessivi (ad esempio specchiarsi continuamento o escoriarsi). Inoltre il paziente è accompagnato gradualmente a partecipare e sentirsi più a proprio agio nelle situazioni sociali.
In questo modo la persona potrà costruirsi un’identità più realistica e rispondente alle proprie caratteristiche e desideri, con un rapporto più sano e sereno con il corpo e, di conseguenza, anche con il mondo esterno.
16 maggio 2022
I disturbi dell’apprendimento sono sempre più numerosi: perché?
Ormai è percezione comune che, entrando in qualsiasi classe, si avrà la certezza di trovare almeno un bambino o un ragazzo con una diagnosi di disturbo dell’apprendimento scolastico. Negli ultimi anni, in effetti, in Italia si è avuto un consistente – ma discutibile – aumento nelle diagnosi e nelle relative certificazioni, in particolare dei cosiddetti DSA, ma anche dei disturbi dell’attenzione e dell’iperattività, come l’ADHD.
Che si parli di dislessia, disortografia, disgrafia o discalculia, le diagnosi di disturbo specifico di apprendimento, nelle sue varie forme, sono passate dallo 0,7% del 2010/2011 (ossia 7 bambini su 1000) al 4,9% del 2018/2019, un aumento di 7 volte.
I professionisti impegnati nel mondo dei disturbi dell’apprendimento, tra cui psicologi, logopedisti, neuropsichiatri e insegnanti, si trovano generalmente d’accordo nel riscontrare tale crescita; tuttavia, le cause di questo incremento sono fonte di un acceso dibattito – e di controversie – nel mondo professionale, ma anche nell’intera società. Il presente articolo intende raccogliere le spiegazioni che negli anni sono state date al fenomeno e proporne di personali, per poi cercare – senza la pretesa di esaurire il dibattito – di integrare le varie prospettive in una visione unitaria.
Il riconoscimento normativo
Molti professionisti del settore sostengono che, per cercare di spiegare il recente incremento delle diagnosi, si debba necessariamente tenere conto dell'approvazione della legge 170 del 2010, la quale riconosce i disturbi specifici dell’apprendimento, garantendo il diritto allo studio anche per i bambini con questa diagnosi. Secondo questa legge, chi presenta questo tipo di difficoltà ha diritto a un percorso personalizzato, quindi differente dallo standard ministeriale, a condizione che la famiglia presenti adeguata certificazione.
Prima dell’entrata in vigore di questa legge non si disponeva di criteri diagnostici sufficientemente condivisi, per cui la diagnosi risultava difficoltosa e poco riconosciuta. Per questo motivo, prima del 2010, i bambini con un disturbo dell’apprendimento non erano semplicemente individuati e, pertanto, nemmeno tutelati.
Aumentata consapevolezza e maggiore precisione diagnostica
Si tratta di una spiegazione strettamente legata a quella riguardante il riconoscimento normativo. Secondo i sostenitori di questa interpretazione, è ora possibile riscontrare un boom di dislessia e disturbi simili proprio perché si è cominciato a parlarne. L’approvazione della Legge 170 del 2010 avrebbe messo in moto un processo che ha generato una maggiore consapevolezza e sensibilità rispetto a queste problematiche, portando le persone a riconoscersi nei vari disturbi e quindi riuscire ad affrontare il problema.
La crescente sensibilizzazione, insieme alla maggiore attenzione, sia clinica, sia legislativa, sia propagandistica, ha portato alla diffusione, oggi praticamente universale, di programmi di screening preventivi all’interno delle scuole. Dai primi anni delle scuole elementari, i bambini vengono sottoposti a batterie di test e questionari, con l’obiettivo di individuare tempestivamente delle difficoltà che potrebbero indicare la potenziale presenza di un disturbo, difficoltà che in passato non riuscivano a trovare una spiegazione o venivano attribuite alla pigrizia, alla svogliatezza, alla stupidità o alla vivacità dell’alunno.
In questo senso, secondo questa interpretazione non sarebbero gli alunni con DSA ad essere aumentati, bensì le certificazioni. Pertanto, l’aumento nelle statistiche viene accolto, in questa prospettiva, in modo positivo, come indicatore di una maggiore sensibilità e attenzione a problematiche comunque già presenti in passato, ma non adeguatamente riconosciute e affrontate.
Un’eccessiva medicalizzazione dell’apprendimento
Un’altra prospettiva riconosce nella tendenza a fare diagnosi di disturbi dell’apprendimento un’espressione della sempre maggiore medicalizzazione della società.
In effetti, nonostante nei documenti ufficiali si riconosca il ruolo dei fattori sociali nella definizione e determinazione dei DSA, l’opinione comune, anche di molti professionisti del settore, è che il disturbo sia innato, geneticamente determinato e, di conseguenza, inevitabile e senza responsabili. Secondo questa interpretazione, la categorizzazione in termini biomedici di queste problematiche, prevista da manuali appositi come il DSM e l’ICD-10 (o, nella sua versione più recente, l’ICD-11), e la conseguente traduzione in categorie amministrative – con notevoli ricadute in ambito sia scolastico che sanitario – di fatto rende legittima la crescente medicalizzazione di processi come quelli di apprendimento che, per loro stessa natura, sono imprescindibilmente influenzati dal contesto sociale e dalle reali condizioni di vita degli studenti e della comunità di appartenenza.
L’incremento delle diagnosi celerebbe, insomma, una sorta di “epidemia diagnostica”, in cui la tendenza alla medicalizzazione si intreccia con gli interessi economici di alcuni protagonisti del processo, primi fra tutti i centri privati di diagnostica, la cui presenza sul territorio si è fatta sempre più capillare negli ultimi anni.
All’interno di questa prospettiva, la forte discrepanza tra nord e sud Italia rispetto al numero di studenti con una diagnosi di disturbo dell’apprendimento, che vede il sud con circa un terzo delle certificazioni emesse al nord, viene spiegata alla luce della maggiore disponibilità, nelle regioni settentrionali, di centri privati di diagnosi. In poche parole: più centri, più diagnosi.
D’altra parte, è possibile giustificare tale incongruenza anche con la maggiore attenzione e sensibilità al tema da parte delle regioni del nord, e con una difficoltà alla diagnosi tempestiva nelle regioni meridionali, interpretazione che risulta la più popolare, ma che tuttavia pecca, a parere di chi scrive, di una certa faciloneria e superficialità: se da un lato non si possono negare le discrepanze tra nord e sud in merito alle risorse disponibili (pubbliche e private), ciò non esclude che al settentrione vi possa essere una maggiore propensione alla diagnosi, dovuta anche ad una certa inclinazione del sistema scolastico – e, in generale, della società – a cercare risposte “oggettive” per ogni sorta di problema.
Una scuola svuotata dall’interno da politiche di definanziamento progressivo si trova sempre più costretta a dover negoziare e accogliere le nuove possibilità di intervento offerte dai privati, in un costante processo di delega di quei bisogni inascoltati a cui lo Stato e la scuola non sarebbero più in condizione di dare risposta.
Tale tendenza alimenta però un circolo vizioso, in cui l’immagine negativa del sistema scolastico, impreparato e inadeguato alle nuove e sempre più diffuse richieste, diventa funzionale sia all’affermazione del privato sociale (come i centri diagnostici sopra menzionati) sia alla giustificazione di una crescente riduzione delle politiche pubbliche (ritenute inutili e inefficienti).
Da parte loro, anche i genitori e gli insegnanti subiscono le stesse tensioni contrastanti prodotte dalla tendenza medicalizzante della società. Così, capita spesso che le famiglie individuino nel Piano Didattico Personalizzato (ossia il documento stilato fra docenti, famiglia e istituzioni socio-sanitarie che riporta un programma didattico personalizzato per l’alunno con necessità particolari) la risoluzione di ogni sorta di problemi del figlio, spingendo attivamente i genitori alla ricerca di una certificazione medica di diagnosi, vista come risposta a tutti i loro dubbi , anche educativi.
In quest’ottica, la firma del documento rappresenta un punto d’arrivo, la conclusione di un percorso piuttosto che il suo inizio, e viene vissuta come una sorta di contratto che sancisce non una collaborazione, bensì una delega tout court alla scuola delle difficoltà manifestate dal proprio figlio. Allo stesso tempo, il contratto si trasforma in strumento attraverso il quale canalizzare le proprie ansie rispetto alla crescita dei figli, arrivando ad esercitare un vero e proprio controllo sull’operato degli insegnanti e sulle eventuali mancate applicazioni di quanto riportato.
Di conseguenza, si viene ad instaurare un clima di sospetto e mancata fiducia – quando non di aperto conflitto – con gli insegnanti, che non può che avere ripercussioni drammatiche sull’esperienza scolastica dei bambini e dei ragazzi.
“Non sono dislessico, sono straniero!”
La complessità e le contraddizioni che accompagnano la diagnosi di DSA emergono in modo emblematico prendendo in considerazione i casi che riguardano alunni di recente immigrazione o figli di genitori immigrati.
Il numero di bambini stranieri con DSA può risultare, in alcuni contesti, anche doppio rispetto a quello dei bambini italiani, un’evidente sovrastima che poco ha a che fare con la reale presenza di una neurodiversità e che sembra indicare un numero consistente di falsi positivi, vale a dire di soggetti che non superano i test diagnostici per i disturbi dell’apprendimento, senza però esserne affetti.
I motivi dietro alla sovrastima possono essere diversi, primo fra tutti la questione della scarsa o diversa esposizione alla lingua italiana, che ha già di per sé un enorme potere discriminante, dal momento che sia la didattica scolastica, sia i test di valutazione diagnostica, sono interamente svolti in italiano.
In secondo luogo, la mancanza di linee guida chiare, in termini operativi, per la diagnosi di DSA nei bambini bi-plurilingue, porta di fatto a seguire lo stesso protocollo diagnostico di quello adottato con bambini italiani. Gli strumenti di rilevazione utilizzati, come i test, sono tarati per la popolazione italiana, e risultano spesso inadeguati per valutare le competenze linguistiche dei bambini stranieri.
Inoltre, fatto forse più grave e generalizzabile ad altre situazioni, molte diagnosi non tengono conto delle difficoltà di inserimento in un contesto radicalmente diverso rispetto a quello del proprio paese di origine, ma soprattutto ignorano le condizioni di disagio materiale in cui molte famiglie vivono.
Le condizioni di difficoltà socio-economica, a partire dall’insufficienza degli spazi, passando per la necessità di aiutare la famiglia nella gestione casalinga, fino all’incapacità da parte di molti genitori (stranieri e non) di seguire i figli a casa, vengono tradotti in termini medicalizzanti attraverso una diagnosi che non ha modo di cogliere le reali problematiche ma che, tuttavia, è probabilmente l’unico sistema per attivare gli strumenti di sostegno sociale previsti dalla legge.
Ciò apre tutto un altro capitolo, altrettanto significativo: in base alla Legge 170 del 2010, molti strumenti compensativi e dispensativi vengono concessi a scuola solo se il bambino ha ricevuto una diagnosi di DSA. Tuttavia, questo fenomeno ha una serie di conseguenze negative, a partire dalle ripercussioni dell’inserimento nella categoria della patologia/disabilità sul bambino, sul suo futuro e sulla sua immagine agli occhi della società.
La sovrastima del numero dei DSA
nei bambini stranieri, inoltre, porta a una considerevole situazione
di sovraffollamento dei servizi (come la neuropsichiatria o gli
ambulatori di terapia logopedica), che potrebbero non riuscire a
dedicare risorse a chi
ne avrebbe effettivamente bisogno.
Disturbi dell’apprendimento o difficoltà di apprendimento?
Il fenomeno che porta a certificare diagnosi allo scopo di avere un trattamento personalizzato si generalizza per tutti gli studenti, non solo stranieri.
Per comprendere l’andamento della presenza dei disturbi dell’apprendimento nelle scuole italiane, quindi, bisogna innanzitutto operare una distinzione tra quanti sono i bambini con un disturbo dell’apprendimento, ossia che presentano un’anomalia nel funzionamento neurobiologico, e quante sono invece le diagnosi rilasciate effettivamente.
In questa prospettiva, ci si può rendere conto di come il numero di diagnosi corrisponda non tanto ai disturbi di apprendimento, bensì a una categoria ben più ampia e variegata, che può essere definita con “difficoltà nell’apprendimento”. Con questo termine si intende inquadrare quei bambini o ragazzi che, pur presentando difficoltà nella prestazione e voti scolastici scarsi o insufficienti, potrebbero riuscire ad ottenere risultati anche molto significativi con un aiuto specifico, orientato a sviluppare delle tecniche e strategie di apprendimento (parte essenziale del metodo di studio) e a promuovere l’autostima, la motivazione e il senso di autoefficacia.
In altre parole, spesso si confonde la scarsa prestazione con la disfunzione, ossia qualcosa che è proprio del sistema cognitivo, confondendo i sintomi con le loro cause. Così, ad esempio, bambini che sembrano avere un disturbo del calcolo, se stimolati con una didattica appropriata e rispondente ai loro bisogni e caratteristiche, possono tranquillamente raggiungere i risultati richiesti dalla scuola.
Il problema sorge nel momento in cui, al posto di agevolare l’inclusione e il successo scolastico del bambino, garantendogli un trattamento adeguato alle sue difficoltà, la diagnosi ha l’effetto di una mortificazione, un’etichetta che non lo fa sentire aiutato e tranquillo ma, al contrario, escluso e “diverso”. Il rischio, concreto e diffuso, è quello di disattivare le sue risorse, creando situazioni per le quali lo studente, invece di attingere alle proprie potenzialità, si abbandona alla rassegnazione della diagnosi e si accasci sul farsi sempre aiutare, aspettandosi una sorta di sostituzione alla propria – e ufficialmente certificata – inadeguatezza.
Dal punto di vista psicologico, tutto questo crea una sorta di identità deficitaria, destabilizzata, che porta il bambino o il ragazzo a identificarsi non con le sue risorse o capacità, bensì con la loro mancanza. Questa tendenza è rintracciabile in affermazioni, fin troppo comuni, del genere: “Non posso scrivere senza computer, io sono disgrafico”, “Mi devi leggere tu, perché io sono dislessico”, “Io sono discalculico, ho la verifica più facile”, eccetera.
L’orientamento alla prestazione in una scuola in difficoltà
A condividere la responsabilità della confusione tra disturbi di apprendimento e difficoltà nell’apprendimento è anche la scuola. Si misura se lo studente raggiunge o meno certi parametri standard, senza prendere in considerazione la qualità dell’apprendimento. In altre parole, la valutazione è operata sulla prestazione, anziché sulla funzione di ciò che si è appreso.
In quest’ottica, la diagnosi rappresenta un mero strumento per motivare dei risultati di apprendimento mediocri o negativi, che hanno però altre cause.
La crescente standardizzazione (e medicalizzazione) della didattica porta con sé il rischio di patologizzare la versatilità cognitiva, vale a dire il diverso modo di elaborare e organizzare le informazioni, che invece caratterizza in maniera del tutto eterogenea i bambini e i ragazzi, determinandone le peculiarità e, quindi, anche le potenzialità e il senso di identità. Tale versatilità cognitiva risulta appiattita dal sempre maggiore livellamento dei percorsi di apprendimento e valutazione, che contempla un unico modello di funzionamento e risposta, identico per tutti gli alunni, e che si nutre dell’idea che imparare significhi ripetere i contenuti in maniera ostinata, e che si possa trovare un riscontro reale di tale apprendimento in un voto.
Dal punto di vista del sistema scolastico odierno, è sicuramente più facile da gestire uno studente con una certificazione, rispetto a educare un bambino che ha solo bisogno di tempi più lunghi degli altri e di un'attenzione particolare da parte dell'insegnante.
Così i percorsi didattici alternativi e facilitati, costruiti ad hoc su una categoria di bisogno definita per legge e per diagnosi, possono apparire seduttivi per quegli insegnanti che, presi nella morsa di un carico di lavoro eccessivo, con mansioni che derogano dallo stretto compito educativo e con risorse ridotte all’osso, finiscono per cedere alla tentazione della delega al sistema sanitario per avere un percorso preconfezionato, e quindi rassicurante, già completamente descritto e prescritto. Ecco che, nel dubbio tra difficoltà e disturbo, si sceglie di certificare il disturbo.
Conclusioni
Nel tentativo, sicuramente ambizioso, di sintetizzare un argomento estremamente complesso e presentare prospettive anche molto diverse tra loro, si spera di essere riusciti a fornire un quadro il più possibile completo e approfondito.
È giunto ora il momento di tirare le fila e avanzare delle considerazioni personali, che derivano sia da quanto analizzato nel presente articolo, sia dalla mia esperienza professionale.
Se da una parte non è possibile negare tout court l’esistenza dei disturbi dell’apprendimento, che rappresentano effettivamente una neurodiversità che caratterizza un certo numero di studenti, sia nel presente ma anche nel passato, dall’altra non è plausibile ridurre la spiegazione del loro aumento nell’ultimo decennio solo alla maggiore consapevolezza e sensibilità derivante, tra le altre cose, dall’approvazione della Legge 170 del 2010.
Esistono numerosi altri fattori in gioco, tra cui spiccano la tendenza medicalizzante della scuola e della società in generale, la crisi educativa e familiare della contemporaneità e le difficoltà del sistema scolastico, incastrato in un’ottica prestazionale che vede solo il risultato quantificabile e dimentica la persona.
Un approccio didattico sensato, che rispetti i ritmi di apprendimento individuali e che valuti il percorso compiuto, e non il mero raggiungimento di determinati standard, risulta ad oggi assolutamente utopico. Tuttavia, questo tipo di approccio può rappresentare una modalità efficace per operare una giusta distinzione tra i disturbi di apprendimento (da certificare e includere) e le difficoltà di apprendimento, inevitabilmente più complesse perché non chiaramente categorizzabili, a cui far fronte in altri e differenti modi.
Perché semplicemente non è vero che tutti i bambini che non sanno leggere sono dislessici, mentre è vero che una diagnosi incauta e impropria può generare un circolo vizioso insidioso, composto da una parte da una performance scolastica insufficiente e dall’altra da problemi emozionali e motivazionali, fino al rifiuto e all’abbandono scolastico, o una scelta di basso profilo rispetto alle potenzialità effettive.
Ciò che manca nel dibattito sui disturbi dell’apprendimento, insomma, è un’analisi dei rischi, in termini di conflitto sociale, stigma e discriminazione, connessi alla patologizzazione di processi complessi come quelli di apprendimento che, pur essendo per loro natura fortemente influenzati dalle esperienze personali, dalle condizioni di vita concrete e dalle influenze socio-culturali, subiscono una notevole – e inaccettabile – distorsione nel momento in cui sono sottoposti alla valutazione psicometrica e alla catalogazione diagnostica, finalizzata all’individuazione netta del confine tra ciò che è definito normale e ciò che è patologico.
Informazioni personali

- Emma Messina
- Sono una psicologa abilitata e un’insegnante, con esperienza più che quinquennale nel settore.
Nel mondo scolastico, ho maturato un'esperienza particolare nei confronti di ragazzi con disturbi dell’apprendimento, problemi di motivazione e di ansia da prestazione. Da anni tengo lezioni sul metodo di studio a studenti di ogni età, per promuovere l’autonomia, rinforzare l’autostima e recuperare le abilità scolastiche.
Parallelamente, offro un servizio di sostegno ai genitori, affinché possano mantenere e consolidare i risultati ottenuti dai figli in un clima di serenità e reciproca comprensione.
Servizi offerti:
- Processo di diagnosi e Valutazione Psicologica;
- Tutoring elementari/medie/superiori/università;
- Orientamento;
- Crescita personale;
- Sostegno genitoriale;
- Consulenza psicologica.
Cerca nel blog
Post in evidenza
Stress e digestione: quando il corpo manda segnali
La vita frenetica che ormai caratterizza la modernità è una continua fonte di stress, anche per chi cerca di sottrarsi ai ritmi incalzanti e...

Post più popolari
-
La coercizione psicologica, tra le influenze sociali, consiste in una serie di pratiche finalizzate nel costringere una persona a comportar...
-
Come presentato in questo articolo , durante l’adolescenza si manifestano conflitti a tutti i livelli dell’esperienza. Sul piano relazional...
-
La prima cosa che viene in mente alla maggior parte delle persone, quando si parla di ansia, è il malessere e lo stato di preoccupazione c...